Approfondimenti

Legge di Bilancio 2024, misure a sostegno della parità di genere e della genitorialità

di Michele Siliato e Barbara Garbelli

Articolo pubblicato sulla Rivista "Il Consulente Milleottantuno" - Centro Studi Nazionale ANCL

La legge di Bilancio 2024 punta a sostenere la genitorialità introducendo diverse misure che tendono a sostenere e ad integrare il reddito delle famiglie con figli, garantendo periodi di congedo parentale maggiormente indennizzati rispetto al passato, aumentando il c.d. bonus nido per i nuclei con ISEE fino a 40.000 euro, prevedendo un abbattimento integrale delle ritenute previdenziali per le lavoratrici con figli nonché una maggiore soglia di esenzione fiscale per i fringe benefit per coloro che hanno figli fiscalmente a carico.

Il pacchetto di misure a sostegno della famiglia varato dal Governo rappresenta, con ogni probabilità, l’ambito di intervento più rilevante della Manovra ed ha lo scopo di sostenere e/o compensare la presunta perdita di potere di acquisto subita negli ultimi anni. Nelle forme di alleggerimento fiscale adottate non può non affermarsi che vi è un chiaro “occhio di riguardo” alle famiglie con figli.

In tale ambito, il presente contributo si limiterà ad esaminare le novità introdotte dalla legge 30 dicembre 2023, n. 213, art. 1, commi 177, 178 e 179.

Modifiche al congedo parentale

Dopo la revisione operata dal decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, e le modifiche apportate dalla legge di Bilancio 2023, l’art. 1, comma 179, della Manovra, agisce nuovamente sulla disciplina dei congedi parentali innalzando in via strutturale l’indennità di cui all’art. 34, decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nella misura dell’80% della retribuzione nel limite massimo di un mese e alla misura del 60% della retribuzione nel limite massimo di un ulteriore mese.

Si noti che il citato comma 179 interviene direttamente modificando il richiamato art. 34, comma 1, T.U. sulla tutela e sostegno della maternità e della paternità, nei termini appresso rappresentati:

Art. 34, c. 1, T.U. n. 151/2001

Vigente fino al 31/12/2023

Per i periodi di congedo parentale di cui all'articolo 32, fino al dodicesimo anno di vita del figlio, a ciascun genitore lavoratore spetta per tre mesi, non trasferibili, un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione, elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima di un mese fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della retribuzione. I genitori hanno altresì diritto, in alternativa tra loro, ad un ulteriore periodo di congedo della durata complessiva di tre mesi, per i quali spetta un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione. Nel caso vi sia un solo genitore, allo stesso spetta un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione per un periodo massimo di nove mesi. Qualora sia stato disposto, ai sensi dell'articolo 337-quater del Codice civile, l'affidamento esclusivo del figlio ad un solo genitore, a quest'ultimo spetta in via esclusiva anche la fruizione del congedo indennizzato riconosciuto complessivamente alla coppia genitoriale. L'indennità è calcolata secondo quanto previsto all'articolo 23

Art. 34, comma 1, T.U. n. 151/2001

Vigente dal 01/01/2024

Per i periodi di congedo parentale di cui all'articolo 32, fino al dodicesimo anno di vita del figlio, a ciascun genitore lavoratore spetta per tre mesi, non trasferibili, un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione, elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima complessiva di due mesi fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della retribuzione nel limite massimo di un mese e alla misura del 60 per cento della retribuzione nel limite massimo di un ulteriore mese, elevata all'80 per cento per il solo anno 2024. I genitori hanno altresì diritto, in alternativa tra loro, ad un ulteriore periodo di congedo della durata complessiva di tre mesi, per i quali spetta un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione. Nel caso vi sia un solo genitore, allo stesso spetta un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione per un periodo massimo di nove mesi. Qualora sia stato disposto, ai sensi dell'articolo 337-quater del Codice civile, l'affidamento esclusivo del figlio ad un solo genitore, a quest'ultimo spetta in via esclusiva anche la fruizione del congedo indennizzato riconosciuto complessivamente alla coppia genitoriale. L'indennità è calcolata secondo quanto previsto all'articolo 23.


La modifica sopra riportata prevede, eccezionalmente e per il solo anno 2024, che per il “secondo” o “ulteriore” mese, riconosciuto dalle modifiche introdotte dalla legge di Bilancio in commento, venga parimenti indennizzato nella maggior misura dell’80%.

Stando, poi, al secondo periodo del comma 179, la novella legislativa si applica ai lavoratori che terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, di cui rispettivamente al capo III e al capo IV del medesimo testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001, successivamente al 31 dicembre 2023.

Analogamente a quanto già affermato dall’Istituto previdenziale con la circolare 16 maggio 2023, n. 45, riferendosi, tale ultimo periodo della novella in commento, alternativamente al capo III (Congedo di maternità) o al capo IV (Congedo di paternità), si ritiene che le innalzate tutele di che trattasi siano fruibili anche nel caso in cui uno dei due genitori fruisca, nell’anno 2024, di almeno un giorno di congedo di maternità o di congedo di paternità obbligatorio di cui all’art. 27-bis, D.lgs. n. 151/2001, oppure del congedo di paternità alternativo ai sensi dell’art. 28, del medesimo decreto legislativo.

Dal 1° gennaio 2024, dunque, per i soli genitori che terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità dopo il 31 dicembre 2023, il congedo parentale di cui all’art. 34, T.U., sarà indennizzato:

·         per un mese all’80% della retribuzione, alternativamente tra i due genitori, con figli entro i sei anni;

·         per un ulteriore mese al 60% della retribuzione, alternativamente tra i due genitori, con figli entro i sei anni, eccezionalmente elevata all’80% per il solo anno 2024;

·         per l’ulteriore periodo al 30% della retribuzione, fino ai dodici anni di vita del figlio.

Si evidenzia che non vi sono, invece, modifiche del periodo massimo richiedibile sicché, a mente dell’art. 32, T.U., come rivisitato dal decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, entrato in vigore lo scorso 13 agosto 2022, il congedo parentale consente ai genitori-lavoratori di astenersi per un periodo massimo di dieci mesi, nei termini di seguito indicati:

·         alla lavoratrice madre, fino al dodicesimo anno di vita del bambino ovvero dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento, spetta un periodo indennizzabile di tre mesi, non trasferibili all’altro genitore;

·         al padre lavoratore, fino al dodicesimo anno di vita del bambino ovvero dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento, spetta un periodo indennizzabile di tre mesi, non trasferibili all’altro genitore;

·         entrambi i genitori possono, in alternativa tra loro, fruire di un ulteriore periodo indennizzabile della durata complessiva di tre mesi.

Ciascun genitore avrà diritto ad un periodo massimo indennizzabile di tre mesi, non trasferibili all’altro genitore, e di un ulteriore periodo indennizzato pari a tre mesi, alternativamente fruibile, sicché sarà possibile richiedere – complessivamente – nove mesi complessivi di congedo indennizzato.

Resta, comunque, valida l’estensione fino al 7° mese per il padre che fruisce di un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi, innalzando, così il limite complessivo fino a undici mesi.

Congedo parentale: suggerimenti pratici per una corretta gestione dell’indennità

Le disposizioni introdotte dalla Legge di Bilancio 2024 modificano nuovamente lo scenario per poter usufruire dei congedi parentali creando, soprattutto in questa prima fase, diversi scenari.

Si propone di seguito uno schema delle principali casistiche da dover trattare:

1.      GENITORI CON CONGEDO OBBLIGATORIO CESSATO ENTRO IL 31.12.2022

Periodo: 9 mesi; Percentuale di indennizzo 30%; Limite di età: 12 anni; Ulteriori condizioni: -.

Periodo: ulteriori mesi fino al raggiungimento del limite massimo di 10 o 11 mesi; Percentuale di indennizzo 30%; Limite di età: 12 anni; Ulteriori condizioni: Solo in caso di reddito inferiore a 2,5 volte il minimo di pensione. 

2.      GENITORI CON CONGEDO OBBLIGATORIO TERMINATO DOPO IL 31 DICEMBRE 2022, MA PRIMA DEL 31 DICEMBRE 2023

               Periodo        Percentuale di indennizzo          Limite d’età            Ulteriori condizioni

                 1 mese                            80%                                 6 anni         In alternativa fra i due genitori


        Ulteriori 8 mesi                      30%                                12 anni      Suddivisi fra i due genitori, di cui

                                                                                                                    3 mesi per ogni genitore ed i re-

                                                                                                                 stanti mesi in alternativa fra i due


Ulteriori mesi fino al Solo in caso di reddito

  raggiungimento del   30% 12 anni inferiore a 2,5 volte l’importo del

    limite massimo di   trattamento minimo di pensione

        10 o 11 mesi                                                        

 

3.      GENITORI CON CONGEDO OBBLIGATORIO TERMINATO DOPO IL 31 DICEMBRE 2023, ANNO 2024

Periodo Percentuale di indennizzo Limite d’età Ulteriori condizioni

 2 mesi     80%                                    6 anni      In alternativa fra i due genitori


Ulteriori 8 mesi       30% 12 anni     Suddivisi fra i due genitori, 

 di cui 3 mesi per ogni genitore

      ed i restanti mesi in alternativa 

fra i due


Ulteriori mesi fino al   30%           12 anni   Solo in caso di reddito inferiore

raggiungimento del limite a 2,5 volte l’importo del

 massimo di 10 o 11 mesi   trattamento minimo di pensione

 

4.      GENITORI CON CONGEDO OBBLIGATORIO TERMINATO DOPO IL 31 DICEMBRE 2023, DALL’ANNO 2025

Periodo Percentuale di indennizzo Limite d’età Ulteriori condizioni

1 mese 80% 6 anni In alternativa fra i due genitori


1 mese 60% 6 anni In alternativa fra i due genitori


Ulteriori 8 mesi     30%     12 anni      Suddivisi fra i due genitori, di

cui 3 mesi per ogni genitore ed i restanti mesi in alternativa fra i due


Ulteriori mesi fino al 30% 12 anni Solo in caso di reddito

raggiungimento   inferiore a 2,5 volte

 del limite massimo l’importo del trattamento

di 10 o 11 mesi         minimo di pensione


Come per l’anno 2023, i due mesi di congedo parentale indennizzati nella misura dell’80% (il secondo mese diminuirà al 60% dal 2025) possono essere fruiti in alternativa fra i due genitori.

Ad oggi non è possibile reperire l’informazione dalla ricevuta di domanda di congedo on line presentata dal lavoratore presso INPS (in via diretta o per il tramite del servizio CAF/patronato); è pertanto necessario richiedere dichiarazione al lavoratore, in cui si attesta che la richiesta di calcolo del congedo a percentuale maggiore non è già stata avanzata dall’altro genitore al proprio datore di lavoro. Questo passaggio risulta di fondamentale importanza per la corretta elaborazione del cedolino paga, oltre che per evitare posizioni debito nei confronti dell’Istituto.

Si propone di seguito un proforma di dichiarazione:

RICHIESTA RICONOSCIMENTO CONGEDO PARENTALE 80%

a seguito della modifica all’articolo 34, comma 1, del D.lgs 151/2001

apportata dall’articolo 1, comma 179, della legge di Bilancio 2024 (L. 213/2023)

 

Al datore di lavoro

                                                           

 

 

Il/La sottoscritto/a                                                                                                                                c.f.                                   ,

genitore del/della bambino/a                                                               nato/a il                           , proprio figlio/a naturale, oppure adottato

ai fini dell’indennizzo all’80% (invece del 30%) della retribuzione di

        un solo mese

        due mesi

dei tre spettanti a ciascun genitore, non trasferibili all’altro, entro i 6 anni di vita (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o di affidamento) del minore, ex articolo 34 del D.lgs n. 151/2001,

 

DICHIARA

 

        di avere già usufruito per lo/la stesso/a bambino/a dei seguenti periodi di congedo parentale

§ per mesi                           e giorni                                  retribuiti al       %

        di non avere già usufruito per lo/la stesso/a bambino/a di periodi di congedo parentale

        di voler usufruire per lo/la stesso/a bambino/a dei seguenti periodi di congedo parentale

§ per mesi                           e giorni                                  retribuiti al  80  %

        di essere nella condizione di genitore solo e, pertanto, di avere diritto ad un periodo di congedo parentale, continuativo o frazionato, fino ad undici mesi

 

DICHIARA inoltre

che il Sig./Sig.ra                                                                   , codice fiscale                                                                              , altro genitore del/la bambino/a sopra citato/a:

          è lavoratore dipendente e ha usufruito o a tutt’oggi sta usufruendo di periodi di congedi parentali nei seguenti termini:

§ per mesi                           e giorni                                  retribuiti al       %

§ per mesi                           e giorni                                  retribuiti al       %

          è lavoratore dipendente e che non ha usufruito né usufruisce di periodi di congedo parentale;

          non ha diritto a congedo parentale in quanto:

·           lavoratore autonomo;

·           non lavoratore.

 

Luogo e data,                                                                                  Il/La dipendente                                            (*)

 


*Il/La sottoscritto/a è consapevole che:

§   è soggetto alle sanzioni previste dal codice penale e dalle leggi speciali in materia qualora rilasci dichiarazioni mendaci, formi o faccia uso di atti falsi od esibisca atti contenenti dati non più rispondenti a verità (art. 76 D.P.R. 28.12.2000, n. 445), compia atti fraudolenti al fine di procurare indebitamente a sé o ad altri prestazioni previdenziali od assistenziali a conoscenza della disciplina di cui all’art. 9 Legge 09.12.1977 n. 903;

§   decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera qualora dal controllo effettuato emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione (artt. 71 e 75 D.P.R. 28.12.2000, n. 445).

 

Ulteriori misure a sostegno della genitorialità: bonus nido 2024

Il bonus nido consiste in una prestazione Inps, diretta a sostenere economicamente i nuclei familiari con figli, mediante un supporto economico per il pagamento delle rette relative alla frequenza di asili nido pubblici e privati autorizzati ovvero di forme di assistenza domiciliare.

La Legge di Bilancio 2024 è intervenuta sulla misura, aumentandone l’importo spettante a beneficio dei nati a decorrere dal 1/1/2024.

Il bonus nido è stato introdotto dalla Legge 11 dicembre 2016 numero 232. Nello specifico, l’articolo 1, comma 355, ha previsto, per i nati a decorrere dal 1° gennaio 2016, un sussidio per:

a)      il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido pubblici e privati;

b)      l’introduzione di forme di supporto presso la propria abitazione in favore dei bambini al di sotto dei tre anni, affetti da gravi patologie croniche.

A partire dal 2024, possono richiedere il bonus i nuclei familiari:

-          con un valore dell’Isee fino a 40 mila euro[1];

-          nei quali sia già presente almeno un figlio di età inferiore ai dieci anni;

-          mediante domanda telematica ad Inps[2] presentata dal genitore che sostiene la spesa relativa al nido o alle misure equivalenti, al seguente percorso: “inps.it – Sostegni, Sussidi e Indennità –

 

come anticipato in premessa, la Legge di Bilancio 2024 ha previsto un aumento dell’importo relativo al bonus, pari a 2.100 euro che, sommati alla cifra precedentemente riconosciuta di 1.500 euro, porta ad un importo complessivo di 3.600 euro.

Si confrontano nello schema di seguito riportato le misure economiche attuali con quelle precedenti:

ANNO DI RIFERIMENTO VALIDITÀ VALORI ISEE VALORE DEL BONUS

2023 Generalità dei beneficiari Fino a 25.000 euro 3.000 euro

Da 25.0001 a 40.000 euro   2.500 euro

Da 40.001 euro       1.500 euro

2024 Nati a decorrere dal Fino a 40.000 euro 3.600 euro

 1/1/2024, in nuclei 

familiari dove sia già

 presente un minore

 di 10 anni


[1] calcolato ai sensi dell’art.7 del DPCM 159/2013

[2] in caso di più figli, è necessario presentare la domanda per ciascuno di essi. Non è pertanto possibile trasmettere una richiesta cumulativa. 

Il “giusto” trattamento economico e normativo: chi rappresenta chi?

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista "Il Consulente Milleottantuno" - Centro Studi Nazionale ANCL

Il salario minimo in Italia, dalla rappresentatività sindacale al CCNL più utilizzato

Non possono dirsi appieno soddisfacenti all’inquadramento della questione sul salario minimo in Italia le quarantadue pagine di riflessione elaborate dal CNEL, che a sprazzi paiono addirittura essere improntate sulle logiche del politically correct, ancorché vi siano, comunque, ragionamenti e spunti di riflessione meritevoli di indubbia attenzione.

Gli stessi componenti del CNEL hanno tenuto a rappresentare, già nelle premesse, che il tema è complesso e che, tra gli stessi esperti, si registrano posizioni diversificate e contrapposte, anche con riferimento alle dinamiche che l’eventuale intervento normativo sul salario minimo legale può comportare sulle esternalizzazioni e sugli appalti di servizi delle pubbliche amministrazioni.

L’estrema sintesi dell’opera è che l’attuale sistema delle retribuzioni in Italia è quasi totalmente regolamentato dalla contrattazione collettiva, in piena conformità con le prescrizioni europee della direttiva 2022 che governa la materia e che fissa un intervento del legislatore nazionale – secondo un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva (…) ed un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva – solo nelle ipotesi in cui il tasso di copertura di detta contrattazione abbia un’estensione particolarmente ridotta (al di sotto dell’80%). Appurata la piena conformità dell’attuale status dell’Italia ai principi della direttiva, si noti che, non considerando il settore agricolo e domestico (esclusi dai flussi Uniemens), le tre “maggiori” sigle sindacali hanno firmato 211 contratti collettivi nazionali, che “coprono” oltre 13 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato, rappresentando il 96,5% dei dipendenti dei quali si conosce il contratto applicato ed il 91,9% del totale dei dipendenti tracciati tramite le predette denunce contributive. I sindacati non presenti nemmeno al CNEL, e di cui quindi la rappresentatività sia alquanto dubbia, firmano 353 contratti collettivi (oltre 1/3 di quelli depositati) che vengono applicati allo 0,4% dei dipendenti del settore privato. Un dato che appare assolutamente marginale e che, comunque, potrebbe facilmente essere messo sotto la lente d’ingrandimento per il tramite – proprio – delle denunce Uniemens, sia con riferimento agli ambiti territoriali di diffusione che dei settori produttivi interessati da tale perturbazione o disallineamento (secondo il CNEL i dati disaggregati per provincia saranno disponibili dal mese di febbraio 2024). Elementi, condivisibilmente fondamentali per arginare prassi fraudolente e abusive con connotazioni geografiche e settoriali che dovrebbero essere sottoposte all’attenzione degli Enti di controllo.

Secondo le considerazioni del CNEL è, dunque, da valorizzare la via tradizionale della contrattazione collettiva e cioè il contributo di quelle forze sociali che rappresentano gli interessi della domanda e della offerta di lavoro, non potendo, presumibilmente, il salario minimo legale contrastare in maniera efficace né il lavoro povero né la pratica del c.d. dumping contrattuale.

Semmai – sempre stando all’elaborato del CNEL – un primo passo in avanti potrebbe essere quello di mettere a fuoco, individuando i contratti collettivi nazionali maggiormente diffusi ed applicati, i perimetri dei predetti accordi per definire uno standard economico minimo di settore, auspicabilmente declinato per ogni livello professionale del sistema di classificazione del lavoro[1]. Su tale affermazione pendono però cruciali criticità. Poco più di un anno fa, con l’emanazione del decreto ministeriale 11 ottobre 2022 sui criteri per l’iscrizione nel repertorio nazionale degli Organismi paritetici si prendeva atto che tra i requisiti per la valutazione della maggiore rappresentatività comparata sul piano nazionale delle associazioni sindacali, il Ministero del Lavoro poneva accanto ai canonici ed incerti parametri sulla rappresentatività, quello “nuovo” dei maggiori indici pubblici percentuali del numero dei lavoratori cui viene applicato il CCNL dalle aziende del sistema di riferimento dell’organismo paritetico. Pare vi sia, allora, tra le intenzioni del legislatore e degli Istituti pubblici in genere, la chiara intenzione di fornirsi di un dato certo che abbia un probabile peso probatorio – stante anche le numerose soccombenze giudiziarie sull’onere della prova – ma che vira non già verso il vero concetto di rappresentatività delle parti sociali, quanto alla elaborazione e definizione di un mero dato statistico.

Ma tale dato, giacché di indiscutibile considerazione, non può certo dirsi, dopo quasi trent’anni di deleghe normative alla maggiore rappresentanza comparata, immune da vizi. Si prenda atto, infatti, che nel nostro sistema giuslavoristico sussistono imponenti preclusioni alla contrattazione minore, dalla determinazione della contribuzione previdenziale, all’accesso ai benefici normativi e contributivi, alle deroghe e materie riservate in tema di contratti e orario di lavoro.

Dopo un lasso di tempo così ampio, pur di non dare attuazione all’art. 39, Costituzione, può ammettersi un cambio di fronte di questo tipo? Un criterio basato sulla mera valutazione statistica d’applicazione di un determinato contratto collettivo, nell’attuale panorama giuslavoristico nazionale, oltreché viziato ab origine per gli anzidetti motivi, rischia di cristallizzare quel concetto di grado di rappresentatività mobile più volte enunciato dalla giurisprudenza, strutturando un vero e proprio inespugnabile monopolio del sistema delle relazioni industriali, specie laddove le piccole e medie imprese – costituenti la quasi totalità del sistema imprenditoriale nazionale – sono spesso distanti da tali logiche associative.

Sarebbe, allora, interessante volgere lo sguardo rispetto alle tipologie di lavoratori/datori di lavoro che sono effettivamente rappresentati e/o iscritti all’associazione di riferimento. Potrebbe essere un’idea quella di ripensare ad una rappresentanza per dimensione aziendale e/o territoriale?

La prima tra le proposte elaborate dal CNEL (Produttività ed i salari) centra, invece, il tema dell’accesso alla contrattazione di prossimità ed al welfare aziendale, nonché le misure di detassazione del salario di produttività. Materie che hanno avuto una rapida diffusione nella grande impresa, in ragione del quasi totale azzeramento del cuneo fiscale, ma che – per via della complessità normativa e/o degli accordi e convenzioni che il datore di lavoro deve reperire – hanno trovato scarsa applicazione nelle PMI che difficilmente riescono ad offrire ai propri lavoratori un vero e proprio paniere di beni e servizi o che – rispetto all’impegno richiesto – riducono notevolmente l’efficacia della leva fiscale e contributiva ricercata dal legislatore. Non a caso le piccole e medie imprese, come noto, ricorrono per lo più a strumenti di semplice applicazione: ticket restaurant; buoni acquisto; rimborsi delle utenze domestiche.

Potrebbe essere una soluzione revisionare/semplificare, almeno per le PMI, l’accesso alle opportunità che la normativa fiscale offre?

A parere di chi scrive, salvo particolari fattispecie che sono, comunque, meritevoli di assoluta attenzione (tra cui, rientra, certamente, il contratto collettivo del settore servizi fiduciari ripetutamente censurato dalla giurisprudenza e dotato di ogni crisma di rappresentatività), il vero problema del lavoro povero è rappresentato da quei rapporti di lavoro fittiziamente instaurati sottoforma di lavoro autonomo, occasionale, lavoro involontariamente a tempo parziale o intermittente irregolare. Tali forme, laddove non genuine, comportano un netto taglio alla disponibilità salariale del dipendente e ciò a prescindere da logiche di conglobamento delle retribuzioni o delle ore o giornate minime garantite[2]. E ciò a prescindere dal settore privato o pubblico di appartenenza, giacché non può non constatarsi che spesso forme, perlomeno non genuine, sono sempre più spesso adottate dalla P.A. in ossequio ai canoni di contenimento e riduzione della spesa pubblica. Quanto alle fittizie ipotesi di lavoro autonomo, il gap potrebbe essere individuabile mediante l’analisi dei committenti dei possessori di partita IVA, strutturando semplici ripartizioni percentuali per codice fiscale dal sistema SDI rispetto alla composizione totale del fatturato dichiarato. Quanto ai rapporti di lavoro dipendente, stando al documento elaborato dal CNEL, potrebbe essere di interesse l’utilizzo dell’istituto del monte ore garantito, utilizzato dalle agenzie del lavoro per il contratto di somministrazione sempre in ragione di una espressa previsione della contrattazione collettiva di riferimento, che corrisponde alla garanzia occupazionale prevista contrattualmente per gli operai agricoli a tempo determinato. La soluzione prospettata dal CNEL appare però già essere contenuta nel Testo Unico dei contratti di lavoro, dove le forme di lavoro flessibile sono spesso subordinate all’inserimento di specifiche clausole ex ante volte ad individuare l’effettiva prestazione del lavoratore. Semmai, sarebbe necessario agire, senza particolari aggravi, sui sistemi di modifica e/o variazione di detti accordi, nonché valutare, sempre per dimensione aziendale e/o territoriale, il ricorso a tali forme di lavoro flessibile. In breve, sarebbe forse opportuno analizzare e, se del caso arginare, chiari segnali di utilizzo più significativo della media nazionale di taluni contratti flessibili?

Si preferisce, infine, glissare sull’ultima affermazione del documento secondo cui si potrebbe fornire maggiore chiarezza anche ai datori di lavoro e ai loro consulenti nella determinazione dei trattamenti retributivi da tenere in considerazione nella elaborazione automatica dei prospetti paga. Se la lettura di un cedolino paga non è di facile lettura, il misfatto è da ricercarsi su una normativa – quella giuslavoristica – di particolare complessità e stratificazione.

Valutazioni sulla giusta retribuzione, competenza esclusiva del giudice del lavoro

I segnali della giurisprudenza di merito e di legittimità appaiono univoci: in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai requisiti indicati dall’art. 36 Cost., (…) fermo restando il dovere (…) di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione.

I citati parametri sono, ovviamente, quelli individuati dal medesimo art. 36 ovverosia i concetti di sufficienza e proporzionalità che mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa, orientando il trattamento economico non solo al mero soddisfacimento dei bisogni essenziali ma anche al conseguimento di c.d. beni immateriali, così come ritenuto congruo anche dal considerando n. 28 dell’ultima Direttiva UE n. 2022/2041 in tema di salari adeguati.

La valutazione circa i parametri di proporzionalità e sufficienza non deve essere necessariamente commisurata alla retribuzione prevista da altri contratti similari, ma ben pprendere a riferimento anche ulteriori parametri diretti che possano individuare una soglia minima invalicabile di sufficienza.

Già prima dell’ultima sentenza della Corte di Cassazione 10 ottobre 2023, n. 28320, che appare sigillare l’annosa questione del CCNL Servizi Fiduciari e consacrare la legittimità giudiziale della valutazione di conformità delle retribuzioni spettanti, vi furono diversi tribunali di merito che individuarono parametri esterni utili alla valutazione di conformità della retribuzione effettivamente percepita, tra cui, ad esempio: la soglia di povertà annualmente stabilita dall’Istat; l’importo percepibile a titolo di reddito di cittadinanza; l’importo dell’assegno di disoccupazione (tra le altre, Trib. Torino 9 agosto 2019, n. 1128; Corte App. Milano 29 giugno 2022, n. 579 e 19 settembre 2022, n. 626; Trib. Milano 21 febbraio 2023; Tribunale di Catania 21 luglio 2023). E ciò a prescindere dalla domanda giudiziale di parte attrice, non dovendo il giudice di merito necessariamente uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande risultano contenute, ma piuttosto – di converso – ricercare il contenuto sostanziale della pretesa fatta valere come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante.

Tesi avallata dalla sopracitata sentenza degli Ermellini, secondo cui, ai sensi dell’art. 2099, Codice Civile, il giudicante gode di ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, potendosi discostare dai minimi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva – anche dotata della c.d. maggiore rappresentatività comparata – e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli contrattual-collettivi, sia in corso che eventualmente in sostituzione, con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell’art. 36 Costituzione.

Tale apprezzamento, nei termini sopra rappresentati, è di esclusiva competenza del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità neppure sotto il profilo del mancato ricorso ai parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva.

Sul punto si noti che il salario stabilito dalle parti sociali beneficia di una mera presunzione di conformità costituzionale, sicché è suscettibile di un accertamento contrario. Invero, sebbene la mancata attuazione dell’art. 39 della Carta Costituzionale consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto collettivo di un settore diverso rispetto a quello in cui si trovi concretamente ad operare, rimane preclusa al lavoratore la possibilità di invocare l’applicazione di un diverso CCNL se non come termine di riferimento per la determinazione della c.d. giusta retribuzione, deducendone la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto dal contratto collettivo effettivamente applicato al rapporto di lavoro.

Pur con tutta la prudenza necessaria nel trattare la materia retributiva e con il rispetto della competenza attribuita normalmente alla contrattazione collettiva, autorità salariale massima, non può che ribadirsi perciò come i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione siano gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva ed abbiano contenuti che preesistono e si impongono dall’esterno nella determinazione del salario.

Tema che – giustamente – rimane, invece, al di fuori del potere di disposizione degli ispettori.

A tal fine, appare utile ricordare che il potere di cui al riscritto art. 14, decreto legislativo n. 124/2004, a mente del quale Il personale ispettivo dell’Ispettorato nazionale del lavoro può adottare nei confronti del datore di lavoro un provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo, in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative, può essere applicato – in forza del tenore letterale della norma stessa – ogniqualvolta vengano constatate violazioni di obblighi legali o contrattuali, non potendo – a parere di chi scrive – estendersi, in assenza di una specifica normativa a sostegno, al mero rinvio a presunzioni di irregolarità sostanziali e non formali anche laddove queste sembrino derivare da ripetuti accertamenti giudiziali.

Nel caso di specie ci si riferisce al recente e discusso intervento del TAR Lombardia in materia di applicazione dell’ormai noto contratto collettivo servizi fiduciari rispetto al quale gli Ispettori disponevano l’applicazione di un diverso trattamento economico in forza delle recenti censure dei tribunali di merito sopra richiamati, i quali hanno, invece, operato un’attenta valutazione della conformità delle retribuzioni corrisposte rispetto al parametro costituzionale in trattazione.

Del resto, l’analisi della questione deve necessariamente aver inizio tenendo conto dell’assunto secondo cui il CCNL da applicare ai propri dipendenti rientra nella piena scelta discrezionale del datore di lavoro e, salvo i casi in cui i contratti collettivi contengano disposizioni contrarie alla legge ovvero riferibili a categorie del tutto disomogenee con quelle in cui opera l’impresa, la determinazione non è sindacabile in sede giurisdizionale.

Come anticipato, il potere di disposizione è esercitabile in relazione al mancato rispetto di norme “certe” di legge o di contratto che siano sprovviste di una specifica sanzione e, dunque, non essendo disciplinata l’applicazione ex lege di un determinato contratto collettivo – salvo per i casi di sostanziale rispetto dei CCNL dotati della maggiore rappresentatività comparata correlata a specifiche finalità attribuite dalla norma – l’intervento dell’INL si sostanzierebbe in una ingiustificata contrazione della libertà sindacale datoriale. Ipotesi di ancora maggior rilievo laddove il potere di disposizione tenda a far soccombere il trattamento economico fissato da parti sociali dotate di ogni crisma di rappresentatività.

Vi è poi, un’ulteriore riflessione.

L’accertamento amministrativo eventualmente così disposto attribuirebbe al funzionario intervenuto non già il potere di accertare eventuali violazioni di disposizioni normative o contrattuali non diversamente sanzionate, bensì di imporre, dietro minaccia di una sanzione pecuniaria, una determinata e permanente conformazione del rapporto di lavoro con conseguente ingerenza di un atto amministrativo unilaterale in un rapporto giuridico tra privati senza le opportune garanzie di giurisdizione.

Violazione che sembrerebbe fondarsi su una mera discrezionalità dell’Ente, in assenza di un chiaro e certo riferimento normativo. Il ragionamento secondo cui la valutazione di conformità del trattamento economico spettante ai lavoratori ai parametri costituzionali di cui all’art. 36 è un accertamento - necessariamente giudiziale - che va eseguito ex post con onere, per il giudicante, (…) di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione. Diversamente, il potere di disposizione presuppone, ex ante, la rilevazione di irregolarità in materia di lavoro e legislazione rispetto ad obblighi legali e contrattuali, sicché – nel caso di specie – lo stesso appare limitato rispetto ad una successiva valutazione di adeguatezza e proporzionalità del quantum stabilito dalle parti sociali.


[1] La perimetrazione sovraordinata dell’ambito di applicazione dell’accordo raggiunto dalle parti sociali, rischia di limitare la libertà d’azione delle medesime organizzazioni sottoscrittrici, pur rilevando che Il modello sindacale italiano appare viziato ab origine laddove il perimetro di determinazione dell’operatività del contratto collettivo resta affidato all’autodeterminazione della rappresentatività del sindacato, quale declinazione della libertà sindacale di destinazione dell’accordo negoziale raggiunto Cfr. C. Caminiti e M. Siliato, La rappresentatività presunta e le incidenze sul mercato del lavoro in Il Consulente Milleottantuno Ed. 5/2022, storico nr. 394, p. 33.

[2] Secondo il documento elaborato dal CNEL, p. 35: Altro meccanismo di particolare interesse è l’istituto del “monte ore garantito”, utilizzato dalle agenzie del lavoro per il contratto di somministrazione sempre in ragione di una espressa previsione della contrattazione collettiva di riferimento, che corrisponde alla garanzia occupazionale prevista contrattualmente per gli operai agricoli a tempo determinato.

Decreto Lavoro e omesso versamento delle ritenute previdenziali: taglio alle sanzioni monstre

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista Sintesi   - Centro Studi Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano

Dopo il contrordine Inps[1] ricevuto con il messaggio 27 settembre 2022, n. 3516, con la pubblicazione in G.U. del Decreto Lavoro arriva l’attesa modifica delle sanzioni amministrative relative alla fattispecie depenalizzata dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali. Salvacondotto sui procedimenti INPS pendenti. 


Dal 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del Decreto Lavoro, sono state rideterminate le sanzioni amministrative punitive previste per le fattispecie di omesso versamento delle ritenute previdenziali, adottando un sistema maggiormente proporzionale e graduale, parametrato sulla base dell’effettiva gravità della violazione contestata.

Di converso, il secondo comma, art. 23, decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, estende il periodo di contestazione dell’illecito, in deroga all’art. 14, legge 24 novembre 1981, n. 689, posticipandolo alla data del 31 dicembre del secondo anno successivo a quello dell’annualità oggetto di violazione.

La disciplina di riferimento della fattispecie è, ancora oggi, contenuta nell’art. 2, decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, e, in origine, prevedeva, con appositi termini per la riammissione in bonis, la configurazione del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali in capo al datore di lavoro che non procedeva, nei termini previsti dalla legge, alla liquidazione nei confronti dell’Istituto previdenziale delle quote contributive effettivamente trattenute ai lavoratori dipendenti.

Come noto, il meccanismo della contribuzione previdenziale, assegna al datore di lavoro un obbligo contributivo diretto sulla quota di sua spettanza ed un obbligo contributivo indiretto sulla minor quota di spettanza del lavoratore, in relazione alla quale egli agisce come responsabile del versamento all’ente preposto. In tal senso, la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali, così come da consolidato orientamento giurisprudenziale, è individuabile in due distinte fasi:

-  nella condotta commissiva del datore di lavoro, consistente nell’appropriazione delle ritenute previdenziali operate;

-   nella condotta omissiva del datore di lavoro, consistente nel mancato versamento delle somme trattenute all’Istituto previdenziale.

Da sempre, il rilievo penale della questione intende colpire non già il fatto omissivo del mancato versamento delle ritenute previdenziali (fattispecie non rientrante nelle ipotesi di reato) quanto, piuttosto, quello commissivo dell’appropriazione indebita da parte del datore di lavoro commessa in relazione alle ritenute operate sulle retribuzioni spettanti al lavoratore.

Si noti, infatti, che tra le caratteristiche principali dell’illecito, sia esso penalmente rilevante o depenalizzato, vi è il presupposto che le retribuzioni siano state effettivamente corrisposte e che, conseguentemente, le trattenute previdenziali siano state effettivamente operate.

Si rammenta, che ai sensi dell’art. 39, legge n. 187/2010, la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali non è relativa solo con riferimento ai rapporti di lavoro dipendente in genere ma anche rispetto ai committenti di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa tenuti alla corresponsione dei contributi presso la Gestione Separata di cui all’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995[2].

Avendo ripercorso brevemente la natura dell’illecito in argomento, il Decreto Lavoro ha agito in maniera sostanziale sulla depenalizzazione operata dall’art. 3, comma 6, decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8, a mente del quale era stato previsto un duplice regime sanzionatorio:

-  uno di tipo amministrativo, laddove l’importo annuo delle ritenute previdenziali non versate sia inferiore o uguale a euro 10.000, determinato nella sanzione pecuniaria amministrativa da 10.000 a 50.000 euro;

-  uno di tipo penale, nel caso in cui l’importo annuo delle ritenute previdenziali non versate sia superiore a euro 10.000, punito con la reclusione fino a tre anni e la multa fino a 1.032 euro.

Invero, l’art. 23, comma 1, decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, ha fissato l’importo della sanzione amministrativa pecuniaria (fattispecie sotto-soglia) nella forbice tra una volta e mezza e quattro volte l’importo omesso.


Ante Decreto Lavoro

(fino al 4 maggio 2023)

Post Decreto Lavoro

 (dal 5 maggio 2023)

L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l'importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.


Post Decreto Lavoro

 (dal 5 maggio 2023)

L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l'importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da una volta e mezza a quattro volte l'importo omesso. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.



Il necessario intervento del legislatore

Un intervento normativo sul tema era fortemente atteso dai datori di lavoro incappati sulla questione dell’illecito in trattazione, ma stando alla lettura della relazione tecnica al ddl, non siamo innanzi ad un atto di benevolenza del legislatore quanto piuttosto ad una mera valutazione di opportunità di finanza pubblica.

I profili rilevabili sono almeno tre: il primo, certamente, di tipo sociale; il secondo economico-finanziario; il terzo costituzionale. Tutti, in qualche modo, connessi e collegabili tra loro.

Sulla portata sociale dell’intervento, la Direzione Centrale Entrate dell’INPS ha reso noto che, fino a tutto il 2019, sono state notificate più di un milione di omissioni non superiori alla soglia di 10.000 euro, non sanate nei tre mesi successivi, e delle quali l’importo medio omesso ammonta a circa 465 euro. Una sanzione amministrativa minima che è pari a oltre 36 volte l’importo medio omesso applicando i criteri di cui all’art. 16, legge n. 689/1981, ovvero ad oltre 10 volte l’importo medio omesso applicando i criteri previsti dall’art. 9, comma 5, d. lgs. n. 8/2016 (messaggio INPS 27 settembre 2022, n. 3516).

L’abnormità della sanzione amministrativa per le ipotesi sotto-soglia appare chiara ed incontrovertibile, tant’è che, nell’anzidetta relazione illustrativa, si ritiene che la disposizione non produca effetti negativi per la finanza pubblica in termini di minore entrate e che il regime sanzionatorio particolarmente severo vigente sino al 4 maggio 2023 rende poco probabile l’incasso di importi consistenti (…) sicché con sanzioni più moderate si renderebbe più esigibile il credito con effetti finanziari migliorativi.

Si ricade, conseguentemente, sul secondo profilo, quello prettamente economico – finanziario. Seppur il concetto di sanzione amministrativa pecuniaria efficiente ed afflittiva deve rispondere adeguatamente alla natura, alla gravità ed alle conseguenze della violazione, ma anche agli effetti che la stessa ottiene sul comportamento dei consociati, il ragionamento posto in essere dal legislatore pare rispolverare gli assunti di Laffer[3] in materia di pressione e gettito fiscale.

Quanto al terzo ed ultimo profilo, quello costituzionale, dapprima il Tribunale di Verbania (ordinanza 13 ottobre 2022) e, successivamente, il Tribunale di Brescia (ordinanza 16 febbraio 2023) hanno sollevato la questione di legittimità della norma in commento per contrarietà all’art. 3 della Costituzione, in quanto hanno ritenuto che la fissazione di un minimo pari ad euro 10.000 e di un massimo pari ad euro 50.000 sottopone ad una irragionevole disparità di trattamento i trasgressori della norma per le omissioni contributive sotto la soglia di rilevanza penale. Infatti, laddove astrattamente il trasgressore violi il precetto normativo nel suo valore massimo sotto-soglia (10.000 euro) potrà accusare una sanzione amministrativa pari ad un quintuplo della violazione stessa. Diversamente, il trasgressore che violi il precetto normativo per un importo minimo (es. 100 euro) vedrà applicarsi una sanzione che rappresenta il centuplo della propria violazione. I predetti giudici a quo hanno, dunque, messo in risalto un’evidente asimmetria di trattamento tra contribuenti che, violando con diversa gravità il medesimo precetto normativo, non sono assoggettati ad una reale e diversa gradualità della sanzione. Questione, questa, dichiarata dalla Corte Costituzionale non manifestamente infondata. Tra i principi del nostro ordinamento, la tutela della proporzionalità della pena è assicurata ogniqualvolta si faccia richiamo all’art. 3 e/o 27 della Carta Costituzionale ovvero all’art. 49, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, potendo i giudici di legittimità dichiarare la semplice illegittimità dell’intera norma ovvero operando una riproporzione chirurgica della sola parte illecitamente sproporzionata.

Sul punto appare rilevante evidenziare che i giudici della Corte Costituzionale hanno recentemente avuto modo di affermare che sono illegittime le:

·  sanzioni manifestatamente eccessive, che siano sproporzionate rispetto al grado di disvalore dell’illecito sanzionato;

·  sanzioni amministrative non graduabili, che non prevedono una discrezionalità nella commisurazione tra la misura minima e la misura massima;

·    sanzioni amministrative irragionevoli, che colpiscono in modo indifferenziato infrazioni più o meno gravi contemplate dal medesimo illecito;

·     sanzioni amministrative cumulative, che colpiscono indistintamente la violazione di obblighi plurimi con la medesima sanzione, non consentendo la graduazione rispetto al singolo illecito commesso.

Se da un lato, la natura punitiva della sanzione amministrativa in argomento consente l’equiparazione con quella penale, con conseguente applicazione del principio di retroattività in bonam partem (art. 2, comma 2, c.p.), innanzi al rischio di illegittimità costituzionale della norma con eventuale impossibilità della stessa di produrre effetti giuridici vincolanti, il legislatore ha optato per varare un sistema sanzionatorio più mite che, pur salvando i procedimenti di notifica già eseguiti dall’INPS, consentirà al giudice, iura novit curia, di applicare le norme di legge che ritiene meglio adattabili al caso concreto anche laddove queste non siano state poste a fondamento della richiesta di parte.

 

Prime indicazioni (non pubblicate) INPS

Con il messaggio 23 maggio 2023, n. 1901, non pubblicato sul sito istituzionale, l’INPS ha fornito le prime istruzioni alle proprie sedi territoriali per la gestione delle ordinanze ingiunzione oggetto di contenzioso giudiziario ovvero di rateizzazione di cui all’art. 26, legge 24 novembre 1981, n. 689.

In particolare, la Direzione INPS ha predisposto, tra gli allegati al messaggio, modelli di comunicazione inerenti le:

·        rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità fino al 2015 con contenzioso pendente;

·        rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità dal 2016 con contenzioso pendente;

·       rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità fino al 2015 con rateazioni di cui all’art. 26, legge n. 689/1981;

·        rettifiche delle ordinanze-ingiunzione per annualità dal 2016 con rateazioni di cui all’art. 26, legge n. 689/1981.

Per quanto concerne la rideterminazione delle sanzioni amministrative sui giudizi pendenti, l’Istituto procederà con l’emissione di un nuovo provvedimento sanzionatorio che annulli e sostituisca il precedente. Ciò anche nell’ipotesi in cui non vi siano le tempistiche necessarie mediante la richiesta di rinvio della causa al Giudice.

Non troveranno, invece, applicazione le nuove disposizioni di cui all’art. 23, decreto legge n. 48/2023, alle ordinanze-ingiunzione per le quali sia intervenuto il pagamento integrale della sanzione amministrativa, dovendosi intendere, in tal caso, definito il procedimento sanzionatorio.

Nelle ipotesi di versamento rateale, laddove l’importo già versato risulti inferiore a quello della sanzione amministrativa rideterminata dalle disposizioni in commento, la sede territoriale INPS procederà a rideterminare l’importo della sanzione dovuta e ad aggiornare il piano di ammortamento. Parimenti, laddove l’importo delle rate versate risulti superiore a quello previsto dalla sanzione amministrativa rideterminata è esclusa ogni forma di rimborso.

Sono, altresì, escluse ulteriori ipotesi di applicazione della nuova disciplina per i provvedimenti di irrogazione divenuti definitivi. In tal senso:

·  nel caso in cui non sia ancora stata emessa l’ordinanza-ingiunzione, l’organo di accertamento può rideterminare la sanzione nella misura più favorevole al datore di lavoro;

·       nel caso in cui il procedimento amministrativo sia divenuto definitivo alla data di entrata in vigore del Decreto Lavoro, resterà ferma la sanzione amministrativa prevista dal d. lgs. n. 8/2016.

Quanto alle disposizioni amministrative INPS, l’allegato messaggio fornisce una riparametrazione delle sanzioni in trattazione, tenuto conto della eventuale reiterazione dell’illecito, secondo la seguente tabella:

Anno N -> Importo ritenute omesse x 1,5

Anno N+1 -> Importo ritenute omesse x 2

Anno N+2 -> Importo ritenute omesse x 2,5

Anno N+3 -> Importo ritenute omesse x 3

Anno N+4 -> Importo ritenute omesse x 3,5

Anno N+5 -> Importo ritenute omesse x 4


Nessuna ulteriore indicazione amministrativa riguardo la possibilità di effettuare il pagamento in misura ridotta ai sensi dell’art. 9, comma 5, d. lgs. n. 8/2016 (metà della sanzione da irrogare entro il termine di 60 giorni dalla notifica), sebbene tale norma sia ancora in vigore e sia, come da indicazioni fornite con il citato messaggio n. 3516/2022, applicabile.

 

Nuovi termini di contestazione dell’illecito

Se da un lato il quadro sanzionatorio sia decisamente più mite del precedente, il secondo comma del sopracitato art. 23, prevede che, per le violazioni riferite alle omissioni per i periodi decorrenti dal 1° gennaio 2023, gli illeciti dovranno essere notificati, in deroga all’art. 14, legge 24 novembre 1981, n. 689, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello dell’annualità oggetto di violazione, sicché le omissioni relative all’anno 2023 dovranno necessariamente essere notificate entro il 31 dicembre 2025.

Viene, dunque, meno il termine di 90 giorni dal riscontro o dall’accertamento dell’omissione precedentemente conosciuto (ex art. 14, l. n. 689/1981). 

A fronte di una sostanziale revisione migliorativa dell’apparato sanzionatorio vi è, dunque, un altrettanto sostanziale aumento dei termini di accertamento da parte dell’Istituto.


[1] Contrordine INPS. Tagli alla sanzione per gli omessi versamenti. Avv. M. Parisi, in Sintesi, ottobre 2022, p. 15.

[2] Il campo di applicazione dell’art. 39 opera esclusivamente nei confronti dei committenti che si avvalgono di prestazioni lavorative appartenenti alle categorie indicate dall’art. 50, comma 1, lett. c-bis), TUIR, ovverosia a tutti i rapporti di collaborazione in genere svolti senza vincolo di subordinazione. È, naturalmente, da escludersi la configurazione dell’illecito nel caso in cui sussista la coincidenza tra la figura del committente e quella del collaboratore (es. compensi riconosciuti ad amministratori di società che siano contestualmente legali rappresentanti della stessa).

[3] Secondo la teoria dell’economo Arthur Laffer, all’aumentare delle aliquote d’imposta si verifica, inizialmente, una crescita di gettito che, successivamente al raggiungimento dell’apice (in corrispondenza di una determinata aliquota), prosegue riducendo progressivamente il gettito fiscale.  


Contratti aziendali e di prossimità sotto la lente del giudice delle leggi

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista "Il Consulente Milleottantuno" - Centro Studi Nazionale ANCL

Normativa ed ambito di riferimento

Giacché, con la sentenza 28 marzo 2023, n. 52, la Corte Costituzionale abbia dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte d’Appello di Napoli, sull’art. 8, decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, per vizi di motivazione, i giudici delle leggi hanno colto l’occasione per esaminare i due distinti ambiti di applicazione dei contratti collettivi aziendali ordinari e dei contratti collettivi aziendali di prossimità.

Premesso che un’eventuale pronuncia di incostituzionalità avrebbe portato non pochi grattacapi al sistema delle relazioni industriali, in considerazione dell’efficacia ex tunc della stessa, fatti, comunque, salvi i rapporti già esauriti, la sentenza in commento appare collocarsi tra i contributi più pregevoli dell’attuale panorama giuslavoristico sindacale, specie considerato che il petitum del rimettente riguarda una delle disposizioni normative più discusse del sistema sindacale.

Si tratta, infatti, di una norma – definita dalla Corte stessa – di portata chiaramente eccezionale che, nel rispetto delle finalità prescritte dalla legge, consente a talune organizzazioni sindacali di sottoscrivere accordi, potenzialmente capaci di derogare non solo alle disposizioni del contratto collettivo nazionale, ma anche della legge stessa, con il solo limite del rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dal diritto europeo e dalle convenzioni internazionali.

Seppur non abbia avuto grande successo, anche a causa della ferma opposizione sindacale, l’art. 8, decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, come convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, prevede la possibilità per i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali aziendali, di realizzare specifiche intese, con efficacia erga omnes, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività. La predetta generale efficacia è subordinata ex lege ad un criterio maggioritario di sottoscrizione da parte delle anzidette organizzazioni sindacali.

Altresì, ai sensi del successivo comma 2, le predette intese possono riguardare la regolazione di materie inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:

·     agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie;

·     alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e all’inquadramento del personale;

·   ai contratti a termine, ai contratti ad orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;

·     alla disciplina dell’orario di lavoro;

·    alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento.

La questione di legittimità costituzionale

La Corte d’Appello di Napoli, chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione proposta da alcuni lavoratori avverso la sentenza del giudice di prime cure che aveva integralmente rigettato la domanda di condanna del datore di lavoro alla corresponsione delle differenze retributive per scatti di anzianità, ferie ed altri istituti retributivi non riconosciuti in forza di un contratto collettivo di prossimità, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 sopracitato, con riferimento agli artt. 2 e 39, primo e quarto comma, della Costituzione, nella parte in cui estende l’efficacia dei contratti aziendali o di prossimità a tutti i lavoratori interessati anche se non firmatari del contratto o appartenenti ad un sindacato non firmatario del contratto collettivo.

In particolare, il giudice di seconde cure evidenziava che gli appellanti deducevano di aderire ad un’organizzazione sindacale diversa, ma anche di aver espressamente contestato, disdettandolo, l’applicazione dell’accordo medesimo.

Il giudice a quo rilevava il possibile contrasto con i sopracitati articoli di rango costituzionale laddove l’efficacia erga omnes attribuita dalla disposizione normativa conculcherebbe la libertà dei singoli lavoratori di aderire ad un altro sindacato e di esprimere, attraverso di esso, il proprio dissenso rispetto agli accordi medesimi.

La sentenza in commento, pur dichiarando inammissibile la questione sollevata per carenza di elementi essenziali utili alla decisione, offre un importante vademecum dei caratteri di sussistenza e legittimità dei contratti aziendali di prossimità ed analizza le sostanziali differenze con i più comuni contratti aziendali ordinari.

Differenze tra accordi aziendali e contratti di prossimità

Tra i primi rilievi evidenziati dalla Corte vi è la netta distinzione dell’efficacia prodotta dai contratti aziendali ordinari e di prossimità.

I primi, infatti, sono – come da costante giurisprudenza di legittimità – applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, anche se non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, trovando il solo limite per quei lavoratori che, aderendo ad un’organizzazione sindacale diversa, comunichino l’esplicito dissenso dall’accordo. Tali lavoratori, per il tramite delle loro organizzazioni sindacali, potrebbero – addirittura – addivenire ad un separato e diverso accordo sindacale.

Al contratto collettivo aziendale ordinario deve, infatti, riconoscersi un’efficacia vincolante, analoga a quella del contratto collettivo nazionale, quale atto di autonomia sindacale riguardante una pluralità di lavoratori collettivamente considerati, facenti parte di una determinata azienda o parte di essa. Il contratto aziendale ordinario introduce una disciplina collettiva delimitata, specifica e idonea ad uniformare i rapporti di lavoro alla quale è riconosciuta un’efficacia soggettiva erga omnes – come regola di carattere generale – avente la sola invalicabile eccezione del principio fondamentale di liberà sindacale, sicché la sua efficacia non dispiega effetti per quei lavoratori che, aderendo ad un’organizzazione sindacale diversa da quella stipulante, ne condividano l’esplicito dissenso.

Si badi bene che l’eventuale dissenso manifestato da alcune associazioni sindacali non è idoneo ad inficiare la validità dell’accordo negoziale raggiunto risultando limitata soltanto la generale efficacia originariamente considerata.

Diversamente, l’art. 8, comma 1, decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, mira a colmare questo possibile limite di applicabilità prevedendo una speciale fattispecie di contratto collettivo aziendale, denominato di prossimità, che ha, invece, efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati. La disposizione, allora, assume un carattere che la Corte aveva già definito, nella precedente sentenza n. 221/2012, chiaramente eccezionale. Eccezionalità che è, per appunto, rimarcata nell’ampia portata derogatoria consentita dalla norma e che consente, nel rispetto degli specifici presupposti e limiti posti dal medesimo art. 8, di godere dell’efficacia generale (erga omnes) nei confronti di tutti i lavoratori.

Vieppiù, l’efficacia generale dell’accordo di prossimità è perseguibile esclusivamente nel caso in cui l’accordo venga raggiunto – in ossequio al tenore letterale della disposizione normativa – sulla base di un criterio maggioritario, che laddove sussistente è idoneo a vincolare anche la minoranza contraria a tale accordo.

A maggior chiarezza, il criterio maggioritario, idoneo ad attribuire la più volte richiamata efficacia erga omnes, deve intendersi rispettato nell’adesione delle associazioni sindacali dotate della maggiore rappresentatività comparata. Pertanto, avranno efficacia generale:

-     i contratti aziendali stipulati con le RSU;

-  i contratti aziendali stipulati con un gruppo di RSA cui partecipano almeno due organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative;

-  i contratti aziendali o territoriali stipulati con almeno due organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.

Ne consegue che:

-  eventuali intese raggiunte con organizzazioni sindacali non dotate della maggiore rappresentatività in termini comparativi comporterà la nullità dell’accordo raggiunto con conseguente invalidità delle clausole pattuite;

-  laddove l’accordo venga raggiunto con una sola delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, l’intesa non dispiegherà la sua efficacia erga omnes, ma solo nei confronti dei lavoratori che sono rappresentati dalle associazioni sindacali stipulati e che hanno sottoscritto le risultanze dell’attività negoziale.   

Ulteriori spunti della sentenza

Al Considerato in diritto 5.1, la Corte evidenzia che il contratto collettivo di prossimità deve essere sottoscritto da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda. Sul punto, avendo la Corte d’Appello rimettente fatto genericamente riferimento al criterio della maggiore rappresentatività, i giudici delle leggi rilevano – a scanso di equivoci – che il criterio comparativo espressamente previsto dalla norma introduce l’ormai notorio elemento selettivo tra organizzazioni sindacali. Tralasciando le questioni inerenti all’individuazione delle OO.SS. comparativamente più rappresentative, la Corte Costituzionale rileva come il giudice adito non si sia espresso circa l’effettivo grado di rappresentatività dell’organizzazione sindacale stipulante l’accordo aziendale in questione, rilevando marginalmente che con la sentenza 26 settembre 2022, n. 8300, il Consiglio di Stato aveva ritenuto la medesima organizzazione sindacale stipulante non essere comparativamente più rappresentativa.

Sul punto, l’avverbio “comparativamente” introduce una selezione tra associazioni sindacali basata sulla valutazione comparativa dell’effettivo grado di rappresentanza di ciascuna di esse. Diversamente, la nozione di organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative è massimamente più inclusiva – in quanto non va attuata alcuna comparazione – e si incardina come mero riconoscimento di una forza rappresentativa. In tal senso, com’anche specificato dal giudice amministrativo nella citata sentenza, la mera circostanza che un sindacato sia sufficientemente rappresentativo a livello nazionale, tanto da partecipare a tavoli tecnici o organi collegiali, non comporta automaticamente che lo stesso sia più rappresentativo nel settore in comparazione rispetto agli altri sindacali confederali. Tale prescrizione sulla rappresentatività ha, come noto, effetti su oltre trenta rinvii normativi che, a prescindere dal livello di contrattazione, rischiano di inficiare clausole o deroghe negoziate dalle parti sociali per assenza del carattere funzionale attribuito dalla norma stessa. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, a tutti i rinvii contenuti dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, alla disciplina dell’orario di lavoro (D. lgs. n. 66/2003), alla determinazione dell’imponibile previdenziale (art. 1, comma 1, legge n. 389/1989, come da interpretazione autentica di cui all’art. 2, comma 25, legge n. 549/1995), alle agevolazioni normative e contributive.

Vi è, infine, almeno un’ulteriore punto, seppur fugacemente trattato dalla Corte, meritevole di alcune considerazioni.

Ci si riferisce al Considerato in diritto 2, a mente del quale la Consulta puntualizza che seppur l’ampio richiamo ai contratti “aziendali o di prossimità” possa essere inteso come far riferimento a tutte le fattispecie di contratto collettivo di secondo livello (id est non nazionali), previste dalla disposizione censurata, ossia tanto a quelli aziendali che territoriali, (…) le questioni di legittimità costituzionale siano state poste, in realtà, con riferimento al solo contratto collettivo aziendale di prossimità e non anche a quello aziendale.

Indagando tra i passi della sentenza, l’efficacia erga omnes dell’accordo aziendale di prossimità trova, tenuto conto della mancata attuazione dell’art. 39, comma 4, Costituzione, la propria ratio nel superamento dei limiti che l’accordo aziendale ordinario incontra rispetto alle manifestazioni di dissenso delle organizzazioni sindacali non aderenti. Il contratto aziendale di prossimità sottoscritto secondo un criterio maggioritario, con maggior forza rispetto all’accordo negoziale ordinario, mira a regolamentare gli interessi collettivi di una comunità aziendale mediante una disciplina sartoriale ed unitaria esigibile anche rispetto a lavoratori espressamente dissenzienti. Un accordo che cerca, comunque, secondo il criterio maggioritario attribuito dalla norma stessa, di perseguire all’interno di un perimetro ben definito (quello aziendale) un unicum normativo ed economico utile al raggiungimento delle finalità prescritte dalla norma e specificatamente per le materie dalla stessa delegate, regolamentando – come anticipato – interessi unitari di una comunità a base ristretta. Superati i confini aziendali vi è, allora, da chiedersi se la mancata applicazione del citato art. 39, comma 4, della Carta, possa inficiare l’efficacia della contrattazione di prossimità riferibile ad un perimetro territoriale più ampio, peraltro anch’esso demandato alla libera individuazione delle parti sottoscrittrici. Si vuole, invero, porre all’attenzione il concetto secondo cui potenzialmente – in extremis – la mancata definizione della dimensione del livello territoriale della contrattazione decentrata di prossimità potrebbe degenerare in tutto ciò che non è di rilevanza nazionale, id est interregionale, regionale, provinciale, comunale, ecc.

Può, allora, il tanto discusso art. 8 avere gli effetti e le tutele attribuite dalla norma su vasta scala, pur non essendo stati ancora rintracciati i contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce sottoscritti da sindacati registrati ed aventi personalità giuridica?

La modifica del CCNL applicato non necessita della sede protetta

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista Sintesi   - Centro Studi Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano

La modifica del CCNL applicato al rapporto di lavoro rientra legittimamente nella libera ed autonoma determinazione delle parti, senza che vi sia la necessità che l’accordo venga raggiunto in sede protetta. 

Il caso è stato affrontato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31148, a seguito della sentenza della Corte d’Appello di Roma che, in riforma al giudice di prime cure, ha respinto la domanda di un giornalista pubblicista dipendente relativa alla restituzione delle differenze retributive lorde percepite in esecuzione alla sentenza di primo grado derivanti dalla illiceità della modifica del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro. Innanzi agli Ermellini, il ricorrente deduceva: 

1. la violazione e la falsa applicazione dell’art. 27, comma 4, del CCNL Radiotelevisioni private del 9 aprile 1994 e degli artt. 1362, 1363 e 2077, Cod. Civile, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la variazione di inquadramento contrattuale frutto di un accordo negoziale intervenuto tra il dipendente e la società datrice di lavoro; 

2. la violazione degli artt. 2077, 2103 e 2113, Cod. Civile, e dell’art. 12, comma 1, sulla legge in generale, relativamente alla violazione del principio di irriducibilità della retribuzione e per aver escluso, il giudice di seconde cure, l’applicabilità delle tutele contemplate dal citato articolo 2113; 

3. la violazione dell’art. 2033, Codice Civile, e dell’art. 38, decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per aver, la sentenza di riforma, condannato il lavoratore alla restituzione delle differenze retributive al lordo e non al netto delle ritenute fiscali. 

Quanto alle prime due doglianze, trattate congiuntamente dai giudici di Piazza Cavour, la Corte ribadisce, mantenendo la linea delle precedenti sentenze n. 3982/2014 e n. 21234/2007, che il contratto collettivo costituisce fonte eteronoma di integrazione al contratto individuale e che la sostituzione in via negoziale di una fonte collettiva ad un’altra si colloca al di fuori dell’ambito regolato dall’art. 2077 cod. civ. in tema di efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale. 

Si noti, infatti, che il secondo comma, art. 2077, Codice Civile, prevede una sostituzione e – più genericamente – una relazione tra clausole difformi dei contratti individuali rispetto a quelle del contratto collettivo (sempreché più favorevoli), non potendo la sostituzione del CCNL applicabile trovare i limiti posti dal richiamato articolo. 

Il contratto collettivo – spesso solo richiamato nella lettera di assunzione con effetto di rinvio – agisce dall’esterno nel rapporto di lavoro quale fonte eteronoma di un regolamento concorrente con la fonte individuale rispetto al criterio del trattamento più favorevole ma che non si incorpora nel contenuto dei contratti individuali. Se ne deduce che la scelta della modifica della disciplina di negoziazione collettiva applicabile al rapporto di lavoro rientra nella libera negoziabilità delle parti e che – conseguentemente – decadono tutte quelle tutele che normalmente vengono protette dalla disciplina giuslavoristica.

Appare il caso di evidenziare un ulteriore determinante passaggio della vicenda. 

A nulla rileva, secondo i giudici, anche la disposizione del contratto collettivo richiamata tra  i motivi del ricorso (dichiarazione a verbale art. 27, accordo del CCNL Radiotelevisioni private del 9 luglio 1994) relativa all’esclusione dell’attribuzione di nuovi inquadramenti ai dipendenti in forza alla data di stipulazione del presente che godano, come condizione personale, della applicazione di altri contratti, valutata, dal ricorrente, alla stregua di una vera e propria clausola di salvaguardia volta ad evitare mutamenti peggiorativi delle condizioni lavorative del comparto. Tale nota esplicativa delle Parti Sociali trovava ragione nella disciplina della emittenza che imponeva l’obbligo di una quota di informazione e del radiogiornale, con conseguente individuazione di nuove figure dedicate a detta attività, che hanno portato le parti sociali a rinviare a successivo accordo l’armonizzazione di tali nuovi inquadramenti nella relazione tra il nuovo ed il precedente contratto. Sul piano giuridico la disposizione del CCNL non avrebbe potuto agire né avrebbe potuto limitare la possibilità di intervenuti nuovi accordi individuali, anche se relativi ad un assoggettamento volontario ad un determinato assetto contrattuale, in quanto – fatte salve specifiche disposizioni di legge – le parti collettive non possono interferire con la libera esplicazione dell’autonomia privata garantita dall’art. 1322 cod. civile. 

Quanto alle tutele di cui all’art. 2113, Codice Civile, concernenti la necessità d’individuazione di una sede protetta, la norma fa salvi esclusivamente i diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, sicché l’opzione negoziale del lavoratore di optare in favore di questo o di quell’ambito di contrattazione non può qualificarsi come un negozio abdicativo, non avendo, tale scelta, la possibilità di incidere su pregresse e specifiche situazioni di vantaggio già entrate nella disponibilità del lavoratore. 

Appare il caso di rammentare che le modificazioni in peius per il lavoratore sono sempre ammissibili nelle ipotesi di successione di contratti collettivi con il solo limite – appunto – dei soli diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente. Anche nella pattuizione negoziale di sostituzione di una fonte collettiva in favore di un’altra, il lavoratore non può pretendere il trattamento retributivo tempo per tempo previsto dal CCNL sostituito ma, al più, potrà cristallizzare la retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale intervenuta. 

Diversamente, l’unico motivo meritevole di accoglimento – nel caso prospettato – è il terzo ovverosia quello concernente la restituzione di somme totali o parziali a seguito di riforma di una precedente sentenza adempiuta dal datore di lavoro. Nel caso di specie – come noto – il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore ha effettivamente percepito, non potendo pretendere la restituzione delle somme al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore.

La pronuncia permette alcuni spunti di riflessione in merito all’avvicendamento tra contratti collettivi applicati al rapporto di lavoro e alla relazione che questi hanno rispetto al contratto individuale, affermando – preliminarmente – che i diritti derivanti da accordi individuali seguono senza soluzione di continuità il loro percorso. 

In primis appare necessario distinguere le ipotesi in cui la variazione del CCNL applicabile al rapporto di lavoro è disciplinata ex lege (si pensi alle ipotesi di operazioni societarie in genere) o sia il frutto di una valutazione delle parti stesse del rapporto, spesso riconducibile ad esigenze organizzative dell’impresa.

Nei casi di trasferimento d’azienda, la successione del CCNL applicabile è regolamentata dal terzo comma, art. 2112, Codice civile, a mente del quale il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti normativi ed economici previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali vigenti alla data del trasferimento e sino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. Sostituzione che avviene esclusivamente tra contratti collettivi del medesimo livello. Possiamo, dunque, affermare che, in dette ipotesi: 

laddove il cessionario non applichi alcun contratto collettivo, lo stesso darà corso al CCNL applicato dal cedente fino a scadenza; 

laddove il cedente non applichi nessun contratto collettivo, il cessionario applicherà il proprio CCNL; 

nel caso in cui il cedente abbia applicato un CCNL diverso da quello del cessionario, il rapporto proseguirà con il CCNL del cessionario; 

qualora il cedente applichi un CCNL in convivenza con un contratto collettivo aziendale, mentre il cessionario non è dotato di alcuna contrattazione aziendale, si applicherà il CCNL del cessionario ed il contratto collettivo aziendale del cedente fino a scadenza; 

laddove entrambi, cedente e cessionario, applichino un CCNL e siano dotati di contrattazione collettiva aziendale, dovrà essere applicato il CCNL del cessionario ed il contratto collettivo aziendale complessivamente più favorevole per il lavoratore; 

qualora vi siano, invece, particolari operazioni societarie – come l’ipotesi della fusione per incorporazione di più società in una NewCo – sarà fondamentale concordare con le OO.SS. la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro individuando un unico contratto collettivo applicabile. 

La questione, invece, appare più complessa – come nel caso affrontato dalla Corte – nella fattispecie in cui la modifica del CCNL applicato al rapporto di lavoro sia riconducibile ad una scelta organizzativa-gestionale del datore di lavoro, dovendo distinguere – opportunamente – le ipotesi in cui il datore di lavoro sia o meno iscritto ad una associazione datoriale.

Qualora il datore di lavoro non abbia conferito mandato a taluna organizzazione sindacale ed abbia espressamente specificato nella lettera di assunzione l’applicazione o il rimando ad una specifica contrattazione nazionale, troveranno applicazione le tutele di disciplina generale riconducibili al sopracitato comma 2, art. 2077, sicché eventuali modifiche unilaterali apposte dal datore di lavoro – anche supportate dall’ausilio delle rappresentanze sindacali – non potranno incidere negativamente sul trattamento del lavoratore. Invero, seppur è spesso necessario l’intervento del fatidico e complesso accordo di armonizzazione tra due discipline di derivazione collettiva che regoli le modalità di transito verso il definitivo passaggio al nuovo contratto collettivo, appare opportuno che singolarmente le parti coinvolte nel rapporto di lavoro addivengano ad un nuovo accordo negoziale di transito alla nuova regolamentazione collettiva. D’altronde, la modifica del regime economico-normativo che opera dall’esterno rispetto ad un rapporto di tipo civilistico – prescelto in fase di assunzione - e che stabilisce la soglia minima generalmente applicabile al rapporto stesso, non può che essere oggetto di appositi accordi negoziali di variazione del rapporto di lavoro che vedano coinvolte le originarie parti contraenti, senza che, la parte sindacale, possa sostituire clausole contrattuali di cui essa stessa – sostanzialmente – non è parte. Accordo che, come ricordato dagli Ermellini, non necessita della sede protetta per i motivi di cui sopra. Resta ovviamente fermo lo zoccolo duro dei c.d. diritti quesiti ovverosia quei trattamenti definitivamente entrati nella sfera patrimoniale del lavoratore ed insensibili a vicende successorie esterne. 

Diversamente, laddove il datore di lavoro abbia aderito ad una specifica organizzazione datoriale sarà necessario che lo stesso comunichi formale disdetta all’associazione, prima della scadenza del CCNL applicato, per poi informare di detto recesso i lavoratori e le eventuali rappresentanze sindacali aziendali. In tal caso, infatti, la parte sociale datoriale ha operato in qualità di mandante ai sensi dell’art. 1704, Codice Civile, obbligando il datore di lavoro mandatario ad applicare il CCNL di categoria sottoscritto. Si rammenta che, da conforme ed unanime giurisprudenza, la cessazione di applicazione di un contratto collettivo per mandato può realizzarsi solo a seguito di disdetta da parte dell’associazione datoriale stessa ovvero per sopraggiunta naturale scadenza della parte economico-normativa. Appare, infine, necessario evidenziare che, in tale ultima ipotesi, non si dovrà tener conto di eventuali clausole di ultra-vigenza contenute nel CCNL. La contestazione del mancato rispetto della procedura di disdetta anzidetta comporterà la possibile rivendicazione da parte dei lavoratori dei trattamenti di miglior favore contemplati dalle clausole rinvenibili nel CCNL sottoscritto dall’organizzazione sindacale alla quale il datore di lavoro aveva conferito mandato.

La Corte di Giustizia Europea sull’illegittimità delle sanzioni amministrative sproporzionate

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista "Il Consulente Milleottantuno" - Centro Studi Nazionale ANCL 

Contesto normativo e principi generali

Più volte, negli ultimi decenni, abbiamo assistito all’impatto che il diritto dell’Unione europea ha avuto nei confronti del potere autoritativo/legislativo degli Stati membri. Supponendo di voler suddividere in tre livelli il sistema della gerarchia delle fonti del diritto, al primo livello troveremmo certamente la nostra Carta Costituzionale, insieme alle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, ma anche i regolamenti comunitari e le direttive comunitarie, sicché l’incidenza dei sopradetti atti e principi non può che condizionare fortemente le c.d. fonti primarie del diritto, sia nella loro stesura che nella loro applicabilità o legittimità.

Tra tali principi di portata generale, spiccano quelli di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa.

Nel diritto costituzionale, il principio di ragionevolezza della norma – pur non essendo stato espressamente previsto – è stato agganciato dalla Corte Costituzionale, da oltre un trentennio, all’art. 3 della Carta, laddove tale assunto rappresenta un’espressione di coerenza, congruenza e adeguatezza, riconducibile all’uguaglianza sostanziale decantata dai Padri Costituenti. Giacché i giudici di legittimità abbiano fatto sempre meno ricorso al predetto principio – l’ultimo intervento al riguardo risale alle recenti sentenze di illegittimità di alcune disposizioni in materia di licenziamento illegittimo varate con il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 – è possibile affermare che in sede di valutazione di conformità della disposizione legislativa, rinviata al vaglio della Corte, il principio di ragionevolezza tende inevitabilmente a fondersi con il principio di proporzionalità ovvero di congruità “tra il mezzo ed il fine” costituendo l’unico limite invalicabile per il legislatore.

Nel diritto amministrativo i principi di ragionevolezza e proporzionalità si delineano come criteri “in negativo” in base ai quali valutare la legittimità dell’espressione del potere legislativo, divenendo un vero e proprio limite all’azione discrezionale della pubblica amministrazione. In tale ambito, i richiamati principi agiscono ed impattano, necessariamente, come limite al potere punitivo tipico della sanzione amministrativa. Dello stesso avviso anche la costante giurisprudenza europea, secondo cui il principio di proporzionalità esige che gli atti adottati non eccedano i limiti di quanto è opportuno e necessario per il raggiungimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa, fermo restando che, comunque, gli svantaggi che gli stessi causano non devono essere sproporzionati rispetto alle finalità perseguite.

Sul punto si è recentemente pronunciata la Grande Sezione della Corte di giustizia UE nella causa C-205/20, depositata lo scorso 8 marzo 2022, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 20 della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, secondo cui “Gli Stati membri stabiliscono le sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie per garantire l’osservanza. Le sanzioni previste sono effettive, proporzionate e dissuasive (…)”.

Corte di giustizia UE, la causa C-205/20

Con la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale amministrativo regionale della Stiria (Landesverwaltungsgericht Steiermark), Austria, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Grande Sezione della Corte di giustizia UE è stata chiamata a chiarire:

·         se il requisito di proporzionalità delle sanzioni di cui all’art. 20 della direttiva UE 2014/67 costituisca una disposizione direttamente applicabile;

·         in caso di risposta negativa al primo punto, se l’interpretazione del diritto degli Stati membri conforme al diritto dell’Unione consenta e richieda che i giudici e le autorità amministrative degli Stati membri integrino, in assenza di interventi legislativi nazionali, le disposizioni penali nazionali applicabili nella specie secondo i criteri di proporzionalità già sanciti nelle precedenti ordinanze della Corte di giustizia UE.

La prima questione sollevata dal giudice del rinvio verte, dunque, sulla possibilità che l’art. 20 della direttiva UE 2014/67 possa avere effetto diretto e possa quindi essere invocato dinnanzi ai giudici nazionali nei confronti di uno Stato membro che non l’abbia correttamente percepito.

Sulla seconda questione, ancorché sollevata in caso di risposta negativa alla prima, se il giudice del rinvio, nell’ipotesi di impossibilità di procedere ad un’interpretazione della normativa nazionale secondo i requisiti di proporzionalità di cui al predetto articolo 20, è tenuto a disapplicare l’anzidetta normativa nazionale nella sua interezza o se gli sia possibile integrarla in modo tale da imporre sanzioni proporzionate.

Quanto al procedimento principale, si rileva che l’impugnazione verteva sulla sanzione amministrativa comminata ad una società con sede in Slovacchia che aveva distaccato dei lavoratori dipendenti in Austria e che, a seguito degli accertamenti svolti nel mese di gennaio 2018, aveva accusato l’irrogazione di una sanzione pecuniaria di importo pari ad euro 54.000 per non aver osservato gli obblighi relativi alla dichiarazione di distacco presso l’autorità nazionale competente e di conservazione della documentazione salariale.

A seguito del ricorso innanzi al giudice austriaco, veniva sollevata la domanda di pronuncia pregiudiziale relativamente al principio di proporzionalità delle sanzioni comminate in ragione dell’assunto dichiarato dalla Corte europea ricevente secondo cui, nella precedente ordinanza del 19 dicembre 2019, sulla causa C-645/18, l’art. 20 della direttiva 2014/67 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che prevede, in caso di inosservanza degli obblighi in materia di diritto del lavoro relativi alla dichiarazione di lavoratori e alla conservazione di documentazione salariale, l’irrogazione di sanzioni pecuniarie di importo elevato:

-          che non possono essere inferiori ad un importo predefinito;

-          che sono irrogate cumulativamente per ciascun lavoratore interessato e senza un massimale;

-          ed alle quali si aggiunge un contributo alle spese del procedimento pari al 20% del loro importo in caso di rigetto del ricorso proposto avverso la decisione che le irroga.

Al riguardo, il giudice del rinvio rileva, altresì, che a seguito di tale ordinanza il legislatore nazionale non ha modificato la normativa nel procedimento principale e, alla luce delle considerazioni esposte nella sentenza del 4 ottobre 2018, Link Logistik (causa C-384/17), si chiede se ed, eventualmente, in che limiti tale normativa possa essere disapplicata.

Per quanto qui rileva, nel precedente caso giurisprudenziale soprarichiamato (causa C-384/17), la Curia, seppur relativamente ad un’altra fattispecie sanzionatoria, aveva affermato che il requisito della proporzionalità della sanzione amministrativa non possa avere un effetto diretto e che, pertanto, il giudice nazionale, laddove ritenga che l’interpretazione del diritto nazionale non possa essere conforme ai principi o alle disposizioni di carattere generale o particolare dell’Unione, deve disapplicare la disciplina che conduca ad un risultato contrario al predetto diritto comunitario.

In tal senso, come vedremo di seguito, l’evento di rilievo è che la sentenza C-205/20 supera il sopradetto orientamento ritenendo direttamente applicabile il principio di proporzionalità sancito dall’art. 20 della direttiva 2014/67, costituendo – a fronte della nota ritrosia della Corte – un vero e proprio overrulings.

Invero, anche se la direttiva intrinsecamente lascia agli Stati membri un certo margine di discrezionalità per l’adozione delle modalità della sua attuazione, una disposizione contenuta in una direttiva comunitaria può essere considerata di carattere incondizionato e preciso se addossa agli Stati membri un’obbligazione di risultato precisa e assolutamente incondizionata. Rilevato che il requisito di proporzionalità contenuto nel predetto articolo 20 è una disposizione con carattere incondizionato – attribuendo, di fatto, un requisito in termini assoluti – e sufficientemente preciso, la disposizione contenuta nell’art. 20 della direttiva 2014/67 può essere direttamente invocata da un singolo e applicata dalle autorità amministrative nonché dai giudici nazionali.

Risolta la prima questione, si passa ad esaminare in che termini il giudice nazionale è tenuto a disapplicare tale normativa, se nella sua interezza o se sia possibile integrarla al fine di imporre sanzioni proporzionate. Secondo la Corte, al giudice nazionale spetta garantire la piena efficacia delle disposizioni comunitarie, dovendo procedere ad un’interpretazione della normativa nazionale, disapplicando, di propria iniziativa, le regolamentazioni nazionali che appaiono incompatibili. Nel caso di specie, il regime sanzionatorio nazionale, seppur idoneo a realizzare i legittimi obiettivi perseguiti, eccede i limiti di quanto necessario per la realizzazione di tali obiettivi, in particolar modo per aver previsto una fattispecie di cumulo senza limite massimo di ammende e che non possono essere inferiori ad un minimo stabilito.

Al fine di poter garantire una piena efficacia al principio di proporzionalità della sanzione amministrativa, spetta al giudice nazionale investito di un ricorso contro una sanzione adottata sulla base di una disposizione nazionale disapplicare la parte della normativa da cui deriva il carattere sproporzionato delle sanzioni, in modo da determinare l’irrogazione di sanzioni proporzionate, che permangano, nel contempo, effettive e dissuasive.

In conclusione, la Grande Sezione della Corte di giustizia UE dichiara che:

·         l’articolo 20 della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, nella parte in cui esige che le sanzioni da esso previste siano proporzionate, abbia effetto diretto, potendo essere invocato dai singoli dinnanzi ai giudici nazionali nei confronti di uno Stato membro che l’abbia recepito in modo non corretto;

·         il primato del diritto dell’unione deve essere interpretato nel senso che esso impone alle autorità nazionali l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale, parte della quale è contraria al requisito di proporzionalità delle sanzioni previsto dal sopracitato articolo 20, nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate.

 

Potenziali effetti nel diritto nazionale e questioni aperte

A completamento dei ragionamenti logico-giuridici posti nella sentenza in commento, appare opportuno evidenziare che il principio di proporzionalità delle sanzioni è contenuto, oltreché in moltissime altre direttive che contengono analoghe disposizioni a quelle stabilite dall’art. 20, anche nell’art. 49, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nel quale viene affermato che “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”. Tale principio, conformemente all’orientamento dei giudici europei, non deve intendersi limitato al solo ambito delle fattispecie penalmente rilevanti, essendo suscettibile di essere applicato alla generalità delle sanzioni aventi carattere punitivo.

Quanto all’ambito di applicazione del citato art. 49, il successivo l’art. 51 della Carta stabilisce che le disposizioni in essa contenute sono applicabili alle istituzioni ed agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà ed agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Tali soggetti sono chiamati a rispettare i diritti ed osservare i principi stabiliti nella Carta ed a promuoverne l’applicazione. L’assunto consente, allora, di delimitare l’ambito di applicazione del principio di proporzionalità della pena a tutte le materie interessate da regolamenti o direttive dell’Unione e, più in generale, a tutti gli atti di normazione secondaria del diritto comunitario.

Sulla concreta applicazione della sentenza in commento, effettuando una ricerca sulla banca dati EUR-Lex è possibile rinvenire oltre 150 direttive aventi una disposizione identica a quella contenuta nell’art. 20 della direttiva 2014/67/UE. A prescindere da ciò, la convergenza tra una disposizione comunitaria ed il contenuto generale dell’art. 49 della Carta operata dalla Curia consente di affermare che la portata dell’innovazione interpretativa rappresentata apre la strada ad un fondamentale strumento di tutela.

Voltando lo sguardo, invece, al panorama nazionale la tutela sulla proporzionalità della pena è assicurata ogniqualvolta si faccia richiamo all’art. 3 e/o 27 della Carta Costituzionale ovvero al sopracitato art. 49, par. 3, della Carta, potendo i giudici di legittimità dichiarare la semplice illegittimità dell’intera norma o una riproporzione chirurgica della sola parte illecitamente sproporzionata.

Sulla proporzionalità della pena, premesso che la determinazione del sistema sanzionatorio è affidata alla discrezionalità del legislatore, i giudici della Corte Costituzionale hanno recentemente avuto modo di affrontare la tematica, potendo sintetizzare i seguenti casi di illegittimità:

·         sanzioni manifestatamente eccessive, che siano sproporzionate al grado di disvalore dell’illecito sanzionato;

·         sanzioni amministrative non graduabili, che non prevedano una discrezionalità nella commisurazione tra la misura minima e la misura massima;

·         sanzioni amministrative irragionevoli, che colpiscono in modo indifferenziato infrazioni più e meno gravi contemplate dal medesimo illecito;

·         sanzioni amministrative cumulative, che colpiscono indistintamente la violazione di obblighi plurimi con la medesima sanzione, non consentendo la graduazione rispetto al singolo illecito commesso.

Tutto ciò considerato, in materia di diritto del lavoro e legislazione sociale la nuova interpretazione in commento potrebbe calmierare il complesso e, a volte, sproporzionato regime sanzionatorio.

Il primo richiamo, per i professionisti del settore, potrebbe facilmente essere ricondotto alla fattispecie dell’illecito versamento delle ritenute previdenziali effettuate dal datore di lavoro di cui all’art. 2, comma 1-bis, decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, come sostituito dall’art. 3, comma 6, decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8. Come noto, tale regime ha introdotto due diverse fattispecie sanzionatorie: la prima di tipo penale, con la reclusione fino a tre anni congiunta alla multa fino a 1.032 euro, laddove l’omesso versamento sia superiore alla soglia di 10.000 euro annui; la seconda, di tipo amministrativo, per gli illeciti sotto soglia, consistente in un importo pecuniario da 10.000 a 50.000 euro. In tale ultima ipotesi, unitamente alla contestazione dell’illecito, che assegna, comunque, un termine di tre mesi per il versamento delle omissioni, viene avvertito il ricevente che, in assenza del versamento entro il termine stabilito, si applicherà – sempreché il versamento venga effettuato entro l’ulteriore termine di sessanta giorni – la sanzione amministrativa quantificata in misura ridotta ai sensi dell’art. 16, legge n. 689/1981, pari all’importo di 16.666 euro, ovvero 1/3 del massimo della sanzione prevista.

Ciò assunto, com’anche ricordato dalla circolare INPS 25 febbraio 2022, n. 32, essendo quantificata in 16.666 euro la sanzione amministrativa in misura ridotta, l’importo dell’eventuale ordinanza ingiunzione non potrà essere inferiore ad euro 17.000.

Brevemente, la sanzione in argomento troverebbe applicazione anche laddove – seppur con colpevole inerzia del ricevente – l’omissione sia inferiore al centinaio di euro, sicché anche l’importo della sanzione in misura ridotta potrebbe risultare di gran lunga superiore all’illecito commesso. In presenza di recidiva, poi, la sanzione amministrativa potrebbe essere “plurima”, realizzandosi la fattispecie per ogni annualità (scadenze 16 gennaio – 16 dicembre, relativo alle retribuzioni, rispettivamente, del mese di dicembre dell’anno precedente e del mese di novembre dell’anno in corso).

Altra ipotesi di dubbia liceità, a parere di chi scrive, potrebbe rinvenirsi nelle sanzioni amministrative correlate al pagamento della retribuzione dei lavoratori dipendenti con modalità diverse da quelle tracciabili prescritte dal comma 910, art. 1, legge 27 dicembre 2017, n. 205, e previste dal successivo comma 913, a mente del quale, al datore di lavoro che viola il sopradetto obbligo si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro.

Atteso che, anche in questo caso, per la contestazione dell’illecito trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 16, legge 24 novembre 1981, n. 689, la sanzione ridotta sarà pari a 1.666,67 euro. Come specificato dall’INL nella nota 9 novembre 2018, n. 9294, ancorché il regime sanzionatorio è da riferirsi alla totalità dei lavoratori presso il singolo datore di lavoro, l’illecito si realizza ogniqualvolta sia riscontrato il comportamento antigiuridico.

A titolo esemplificativo, nell’ipotesi di lavoratori in nero – non essendo stata esclusa ex lege l’applicazione dell’eventuale ulteriore sanzione prevista dal citato comma 913 – rispetto ai quali venga accertata l’effettiva erogazione della retribuzione in contanti con periodicità giornaliera, si potrebbero configurare tanti illeciti per quante giornate di lavoro in nero sono state effettuate.

Tale cumulabilità del medesimo illecito protrattasi nel tempo potrebbe portare all’applicazione di una sanzione amministrativa, forse, sproporzionata all’illecito commesso, peraltro – nel nostro caso – già oggetto di maxi-sanzione e relativi oneri di regolarizzazione.

Infine, lasciando all’immaginazione del lettore le ulteriori sanzioni amministrative di dubbia proporzionalità, troviamo, nel nostro ordinamento, una fattispecie quasi del tutto analoga della norma austriaca censurata dalla Corte nella sentenza C-205/20.

Ci si riferisce agli obblighi amministrativi previsti dall’art. 10 e 10-bis, decreto legislativo 17 luglio 2016, n. 136, per le ipotesi di imprese che distaccano lavoratori in Italia.

L’impresa che violi gli obblighi di comunicazione ministeriale preventiva di distacco – con l’indicazione di tutte le informazioni elencate al comma 1 – è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 180 a 600 euro per ogni lavoratore interessato. La mancata conservazione della documentazione, del contratto di lavoro, dei prospetti paga e la mancata prova del pagamento delle retribuzioni, durante il periodo del distacco e per i due anni successivi alla cessazione dello stesso, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 600 a 3.600 euro per ogni lavoratore interessato.

La mancata designazione del referente elettivamente domiciliato in Italia ed incaricato di inviare e ricevere atti e documenti ovvero di designare un referente con poteri di rappresentanza comporta l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 2.400 a 7.200 euro.

In ultimo, quanto al settore dei trasporti, la circolazione senza la documentazione prevista dai predetti articoli 10 e 10-bis o con documentazione non conforme è soggetta alla sanzione amministrativa da 1.200 a 12.000 euro.

Tutti illeciti, questi ultimi, che provocano un déja-vu rispetto alla sentenza in commento. 

Indennità una-tantum per lavoratori autonomi e liberi professionisti

di Michele Siliato e Tiziana Fontanelli

Circolare del 27 settembre 2022 per i clienti dello Studio

Con il decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia delle finanze, del 19 agosto 2022, pubblicato in G.U. n. 224 del 24 settembre 2022, e con la successiva circolare INPS 26 settembre 2022, n. 103, è, rispettivamente, stata data attuazione e sono state fornite le istruzioni di cui all’art. 33, decreto-legge 17 maggio 2022, n. 50, relativamente all’indennità una-tantum prevista a favore di lavoratori autonomi e liberi professionisti. 

Si rammenta che, con la medesima domanda, sarà possibile richiedere anche l’ulteriore indennità di 150 euro prevista dall’art. 20, decreto legge 23 settembre 2022, n. 144.  


Beneficiari e requisiti

Con specifico riferimento ai lavoratori autonomi e professionisti iscritti alle gestioni previdenziali INPS possono accedere all’indennità una-tantum coloro che: 

abbiano percepito, nel periodo d’imposta 2021, un reddito complessivo non superiore a 35.000 euro (per l’accesso all’indennità una-tantum di euro 200) ovvero non superiore a 20.000 euro (per l’accesso all’indennità una-tantum di euro 350 – pari alla somma delle due indennità richiamate in premessa); 

siano iscritti alla gestione autonoma con posizione attiva alla data del 18 maggio 2022; 

siano titolari di partita IVA attiva e con attività lavorativa avviata al 18 maggio 2022; 

abbiano effettuato entro il 18 maggio 2022, per il periodo di competenza dal 1° gennaio 2020 e con scadenze di versamento entro il 18 maggio 2022, almeno un versamento contributivo, totale o parziale, alla gestione di iscrizione per la quale è richiesta l’indennità; 

non siano titolari di trattamenti pensionistici diretti alla data del 18 maggio 2022; 

non abbiano percepito le prestazioni di cui agli artt. 31 e 32 del D. L. n. 50/2022.


Presentazione della domanda

La domanda deve essere presentata telematicamente dal sito istituzionale INPS, previo accesso con SPID, CIE o CNS, entro la data del 30 novembre 2022, tramite la sezione “Punto d’accesso alle prestazioni non pensionistiche” raggiungibile dalla Home page > Prestazioni e servizi > Servizi e selezionando l’apposita categoria di appartenenza.


Cordiali saluti,

Messina, 27 settembre 2022             

Il finto part-time integra il reato di sfruttamento del lavoro

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista Sintesi   - Centro Studi Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano

Contrattualizzare part-time lavoratori che svolgono la prestazione lavorativa a tempo pieno integra il reato di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603-bis, Codice Penale. 

All’assunto è addivenuta la quarta sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza 24 giugno 2022, n. 24388, ha condiviso i precedenti gradi di giudizio nei quali è stato affermato che far figurare falsamente i dipendenti a tempo parziale, costringendoli ad accettare le condizioni imposte dal datore di lavoro a fronte della necessità di mantenere l’occupazione, è un comportamento idoneo a perfezionare il reato di sfruttamento del lavoro. 

Nel tentativo di arginare il fenomeno del c.d. caporalato, tutt’ora ampiamente presente specie in determinati settori produttivi, con la riformulazione operata dalla legge 29 ottobre 2016, n. 199, all’art. 603-bis, Codice Penale, il legislatore ha inteso ampliare il perimetro di operatività dell’incriminazione dalla fattispecie della “mera” intermediazione di manodopera organizzata mediante violenza, minaccia o intimidazione ovvero approfittando dello stato di bisogno o necessità dei lavoratori, a comportamenti direttamente riconducibili al fruitore finale della prestazione lavorativa. 

Ad oggi, il delitto in esame si presenta come una norma di portata generale volta a punire tutte quelle condotte gravemente distorsive del mercato del lavoro che, sfruttando mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittano dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori e che realizzano una vera e propria condizione di sfruttamento.

Ai sensi dell’art. 603-bis, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 

1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle OO.SS. più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato; 

2. la reiterata violazione della normativa in materia di orario di lavoro, periodi di riposo giornaliero o settimanale, periodi di ferie; 

3. la sussistenza di gravi violazioni in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro; 

4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni analoghe degradanti. 

Gli anzidetti indici sintomatici, pedissequamente individuati dal legislatore, consentono al giudice di orientarsi rispetto alla valutazione dello squilibrio tra le prestazioni effettivamente rese dal lavoratore e la rispondenza del trattamento rispetto al correlativo modello contrattuale o legale. Giacché non vi siano margini o confini ben delineati che possano incardinare la fattispecie delittuosa, avendo il legislatore fornito solo indizi all’integrazione del reato, il che potrebbe – peraltro – essere vantaggioso per scongiurare perversi meccanismi più o meno delittuosi con tendenza all’eventuale sanzione amministrativa, il bene giuridico oggetto di tutela è certamente la dignità del lavoratore ed il relativo contrasto rispetto a gravi violazioni tendenti alla mercificazione dell’essere umano. 

Il caso al vaglio degli Ermellini, trae origine dal sequestro preventivo disposto dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Lamezia Terme, nei confronti del legale rappresentante gravemente indiziato del reato di sfruttamento del lavoro. La ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale ha accertato in maniera dettagliata e circostanziata come tutti i lavoratori, dalla data della loro assunzione, fossero stati resi edotti della circostanza per cui avrebbero dovuto lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto dalla contrattazione collettiva. Altresì, in costanza di rapporto, i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro da full-time a part-time, continuando a prestare la propria opera per le ore corrispondenti al contratto a tempo pieno e percependo una retribuzione debitamente riproporzionata alla percentuale part-time accusata. Il Tribunale accertava, inoltre, che i dipendenti non usufruivano di ferie e/o permessi retribuiti, lavorando – sostanzialmente – tutti i giorni fino a raggiungere, anche, le quarantotto ore settimanali durante i picchi stagionali. Tali risultanze venivano desunte dalle dichiarazioni rese dai lavoratori in fase di accesso ispettivo e dal raffronto tra i turni di lavoro e i documenti contabili elaborati dall’impresa. 

Tra le doglianze poste innanzi alla Corte di Cassazione, il ricorrente ha sostenuto che i rapporti di lavoro erano stati instauranti in data antecedente al 4 novembre 2016, giorno in cui è stata introdotta la fattispecie incriminatrice, sicché la disposizione penale non avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie. 

Secondo il condivisibile assunto dei Giudici di Piazza Cavour, invece, il delitto di sfruttamento del lavoro è un reato istantaneo con effetti permanenti il cui perfezionamento si realizza anche attraverso l’impiego o l’utilizzazione della manodopera in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno. Di conseguenza, dunque, la lesione del bene giuridico protetto permane finché perdura la condizione di sfruttamento e approfittamento, potendo, il reato, essere commesso anche dai datori di lavoro che abbiano assunto lavoratori prima dell’introduzione della norma penale e che abbiano continuato a mantenerli in servizio, in condizioni di sfruttamento, anche successivamente al 4 novembre 2016.

La sopradetta decisione è perfettamente in linea con il tenore della norma e con l’intenzione del legislatore ovvero con lo scopo di punire lo sfruttamento dei lavoratori. In tal senso, il reato, oltreché configurarsi all’atto dell’assunzione di lavoratori in condizioni di sfruttamento, richiede necessariamente che le anzidette condizioni si realizzino durante la gestione del rapporto di lavoro, protraendosi per tutto il tempo in cui le stesse contravvengano gravemente alle disposizioni di legge. L’ampia tutela ricercata dalla norma, infatti, prevede che il reato si perfezioni non solo all’atto dell’assunzione, ma anche nell’utilizzazione o nell’impiego di manodopera. 

Nella medesima pronuncia, quanto allo stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, la Corte ha riaffermato l’orientamento ormai consolidato secondo cui ai fini del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualsivoglia libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose. Al riguardo si rileva come anche il tessuto imprenditoriale o le c.d. condizioni ambientali possano costituire un importante indice valutativo del comportamento datoriale laddove, nel contesto socio-economico di consumazione della vicenda, la (fittizia) libera pattuizione – quale accordo contrattuale di accettazione di una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorate – è sic e simpliciter riconducibile alla necessità di mantenere un’occupazione, non esistendo, nel predetto contesto, possibili reali alternative di lavoro. 

La sentenza in commento appare in linea con i precedenti orientamenti giurisprudenziali concernenti la rilevanza penale di talune condotte datoriali accomunate, generalmente, dall’incutere timore e forzare la volontà del lavoratore nel senso voluto dal datore di lavoro  . Al riguardo, dall’analisi del tenore letterale dell’art. 603-bis, Codice Penale, assunto che il bene tutelato è la dignità personale del lavoratore, il reato di caporalato si configura ogni qualvolta siano rinvenibili le caratteristiche dello sfruttamento e dello stato di bisogno del prestatore di lavoro. L’intenzione del legislatore non è quella di limitarsi alla mera attività di reclutamento, utilizzazione o impiego di manodopera (art. 603-bis, commi 1 e 2) al ricorrere delle condizioni elencate al comma 3 dello stesso articolo. 

L’accezione peggiorativa del termine sfruttamento può essere definita come quella forzatura della capacità produttiva per l’ottenimento di un vantaggio patrimoniale immediato, depauperandone risorse ed il rendimento futuro. Nell’alveo delle dinamiche lavoristiche, ai fini della configurazione del reato il predetto concetto di sfruttamento – che, come sopra esplicitato, appare attenere all’illiceità di un sistema di produzione nella tutela della concorrenza – deve essere correlato e connesso all’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, con conseguente disvalore e lesione della dignità del singolo prestatore. In tal senso, l’impostazione ricercata dal legislatore attribuisce al giudice la possibilità di indagare sull’attività effettivamente resa di volta in volta dal singolo lavoratore per poi verificarne la rispondenza rispetto al trattamento tutelato dalla legge o dal contratto collettivo. Tale ricerca non deve consistere in un mero ed isolato inadempimento, sicché le inadempienze devono essere “sproporzionate”, “palesemente difformi” e/o “reiterate”. Violazioni che devono essere valutate rispetto alla posizione del singolo lavoratore e non già rispetto alla pluralità dei lavoratori impiegati. Lo sfruttamento, quale condotta accompagnata all’approfittamento dello stato di bisogno idoneo ad integrare il reato in commento, va inteso come depauperamento del rapporto tra la forza impiegata dal lavoratore e le condizioni assicurate dal datore di lavoro che, oltrepassando in maniera sistematica e reiterata i limiti posti dall’ordinamento a garanzia e tutela della prestazione lavorativa, pone in essere situazioni di degrado della dignità del lavoratore, vuoi per spregio dello stato psico-fisico, vuoi per l’adeguamento a situazioni alloggiative umilianti, vuoi per l’obbligo di accettazione di condizioni lavorative gravemente lesive per il prestatore in ragione dello stato di necessità correlato all’impossibilità di reperire diverse condizioni lavorative. 

Quanto ai profili penali della condotta datoriale, si noti che dalla lettura della sentenza in commento, dal giugno 2018 i dipendenti subirono una modifica unilaterale del contratto di lavoro, passando da un contratto subordinato “full-time” ad un “part-time”. Tuttavia, nonostante la modifica del contratto, i dipendenti continuarono a lavorare per un numero di ore corrispondenti al contratto a tempo pieno, percependo la retribuzione prevista dal CCNL relativa ai contratti part-time. Ebbene, senza voler entrare nel merito del giudicato, oltre a rinvenire la fattispecie contemplata dall’art. 603-bis, Codice Penale, che si integra, come detto, al realizzarsi dello sfruttamento del lavoro in stato di necessità o di bisogno del prestatore di lavoro, vi è un ulteriore fatto prodotto dal datore di lavoro ovverosia il fittizio accordo di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. A parere di chi scrive, non vi è, dunque, il solo sfruttamento del lavoro, bensì, probabilmente, anche la configurazione del reato di cui all’art. 629, Codice Penale, laddove il datore di lavoro mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La violenza o la minaccia citata nel reato di estorsione deve essere diretta a coartare la volontà della vittima affinché questa compia un atto di disposizione patrimoniale, sia esso positivo (donazione di una somma di danaro) o negativo (remissione di un debito), produttivo di effetti giuridici. Nel caso de quo, l’ingiusto profitto realizzato dagli indagati, corrispondente alle retribuzioni non erogate, è stato quantificato in oltre 186.000 euro. In punto di diritto, l’oggetto di tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice: l’interesse pubblico di inviolabilità del patrimonio; la libertà di autodeterminazione. Sempre rimanendo sul caso in esame, l’evento finale della disposizione patrimoniale (la sottoscrizione dell’accordo di trasformazione del rapporto) proviene dalla stessa vittima e non è escluso che esso sia il risultato di una situazione di costrizione determinata da violenza o minaccia dell’agente che ha ridotto notevolmente il potere di autodeterminazione della vittima. In breve, il lavoratore, quale soggetto passivo dell’estorsione, poteva trovarsi nell’alternativa tra far conseguire all’agente il vantaggio economico noto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato. Al riguardo si evidenzia che la minaccia può – in giurisprudenza – assumere notevoli sfaccettature, potendo presentarsi in forme esplicite o larvate, scritte o orali, determinate o indeterminate ovvero assumere forme di semplice esortazione o consiglio, sicché la sottoscrizione di un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente volto all’accettazione da parte di quest’ultimo a percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore di lavoro svolte (di dubbia libera pattuizione), non può escludere la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi, comunque, una possibilità di lavoro.  

Le condivisibili e molteplici pronunce della Suprema Corte in materia di diritto penale del lavoro di censura a riprovevoli condotte datoriali evidenziano che, non sempre, le sanzioni di natura amministrativa sono idonee a contrastare gravi forme di illegalità che incidono fortemente sulla posizione del prestatore di lavoro subordinato. Stiamo, pian piano, assistendo ad un importante utilizzo dell’art. 603-bis, Codice Penale, che necessariamente innalza le tutele giuslavoristiche. A parere di chi scrive, derubricare o depotenziare gli effetti di una norma incriminatrice, anche a favore di nuove e contorti illeciti di natura amministrativa, non può essere salutata con favore laddove questa rappresenta – com’è in effetti – l’unico strumento deterrente a riprovevoli condotte. 

Pagamento diretto degli ammortizzatori sociali, solo con Uniemens-CIG 

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista eDotto

Con il messaggio 8 luglio 2022, n. 2743, l’Istituto comunica di aver reso disponibili nel proprio sito istituzionale i nuovi servizi per l’acquisizione o l’eliminazione dei flussi Uniemens-CIG.

Facendo seguito alla circolare 14 aprile 2021, n. 62, con la quale sono state illustrate le novità introdotte dall’art. 8, comma 5, decreto legge 22 marzo 2021, n. 41, relativamente alle modalità di trasmissione dei dati necessari per la liquidazione diretta delle integrazioni salariali erogate dall’INPS, oggetto di successiva e temporanea proroga di coesistenza dei due sistemi di comunicazione resa nota con i messaggi INPS n. 3556/2021 e n. 1320/2022 (fino al 30 aprile 2022), con le nuove indicazioni amministrative viene reso noto il rilascio dei due predetti servizi.

In particolare, il servizio per l’acquisizione dell’Uniemens-CIG, utile alla trasmissione dei flussi di pagamento, è disponibile alla sezione Servizi per le Aziende ed i Consulenti dove è esposto con la nomenclatura “Acquisizione Uniemens-Cig”.  

Dal medesimo portale, sarà – altresì – possibile utilizzare l’applicativo “Eliminazione Uniemens-CIG” che consente di eliminare i flussi precedentemente trasmessi mediante un sistema di ricerca avente, tra i dati di input, il codice fiscale del lavoratore, il periodo di competenza e l’inquadramento del lavoratore. 


Maggiorazioni per lavoro straordinario, non basta conteggiare le ore di lavoro “effettivo

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista Sintesi   - Centro Studi Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano

Al vaglio della Corte di Giustizia Europea le regole per il corretto computo delle ore utili per la determinazione del lavoro straordinario e delle relative maggiorazioni. Con la domanda di pronuncia pregiudiziale posta dalla Corte federale del lavoro tedesca (Bundesarbeitsgericht), ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Curia è stata interpellata a chiarire se l’art. 31, par. 2, della Carta e l’art. 7 della direttiva 2003/88 ostino a una disposizione di un contratto collettivo la quale, ai fini del calcolo se e per quante ore un lavoratore abbia diritto ad aumenti per il lavoro straordinario, tenga unicamente conto delle ore effettivamente prestate, ad esclusione delle ore fruite dal lavoratore a titolo di ferie annuali minime retribuite.

L’accertamento della compatibilità della disciplina di derivazione collettiva ed il diritto dell’Unione verteva, in particolare, sulle disposizioni dell’art. 7, della sopracitata direttiva, secondo cui gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché venga garantito ad ogni lavoratore il beneficio di almeno quattro settimane annue di ferie retribuite, e le indicazioni contenute nel Manteltarifvertrag für Zeitarbeit (accordo collettivo generale sul lavoro temporaneo), a mente del quale viene stabilito che gli aumenti per gli straordinari sono pagati per le ore prestate oltre le 184 ore per 23 giorni lavorativi con una maggiorazione del 25%.

Nel caso di specie, il lavoratore dipendente di un’impresa tedesca adiva il giudice di prime cure sollevando il diritto alla corresponsione delle maggiorazioni per lavoro straordinario per la mensilità di agosto 2017, che comprendeva 23 giorni lavorabili, nella quale lo stesso aveva effettivamente prestato la sua opera per complessive 121,75 ore durante i primi 13 giorni e, successivamente, ha goduto di restanti 10 giorni di ferie annuali retribuite, corrispondenti a 84,7 ore, chiedendo pertanto la corresponsione del supplemento del 25% per 22,45 ore, quale eccedenza rispetto alle 184 ore di cui all’accordo collettivo sopracitato, per una differenza retributiva quantificata in euro 72,32.

A seguito del rigetto della domanda sia in prima istanza che in appello, il dipendente decide di presentare ricorso in cassazione (Revision). Quest’ultimo, dall’attenta analisi delle ricadute della disposizione collettiva sopra citata, secondo cui il solo computo delle ore effettivamente lavorate avrebbe potuto incoraggiare i lavoratori a non godere del periodo minimo di ferie annuali retribuite – per via della perdita del diritto all’aumento della retribuzione nella misura del 25% delle ore prestate -, decide di rinviare alla Corte di Giustizia UE, se le previsioni contrattuali contestate ostino o meno alla normativa comunitaria.

Invero, secondo le rilevazioni dei giudici del Bundesarbeitsgericht le previsioni contrattuali sopracitate potrebbero amputare il diritto all’aumento della retribuzione degli straordinari e dissuadere i lavoratori dall’esercitare il diritto al periodo minimo di ferie annuali retribuite.

Sostanzialmente il giudice del rinvio chiede se l’art. 31, par. 2, della Carta e l’art. 7 della direttiva 2003/88 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto all’aumento per le ore straordinarie, le ore corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite prese dal lavoratore non sono prese in considerazione come ore di lavoro prestate.

Il percorso giuridico-argomentativo della Corte Europea muove, innanzitutto, dalle disposizioni contenute nell’art. 7, par. 1, direttiva 2003/88, secondo cui gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, sicché le discipline nazionali devono astenersi dal subordinare a qualsiasi condizione l’esercizio del diritto sopradetto che scaturisce direttamente dalla direttiva comunitaria (sent. 29 novembre 2017, King, C-214/16). Successivamente, come già rilevato in precedenti sentenze, il diritto alle ferie annuali retribuite – sancito anche dall’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – deve essere considerato un principio particolarmente importante nel diritto sociale dell’Unione, potendo – le autorità nazionali – derogare nei limiti esplicitamente previsti dalla direttiva 2003/88. Come noto, il diritto al godimento di un periodo di ferie annuali retribuite concorre al miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori, garantendo adeguati periodi di riposo, potendosi affermare che l’art. 7 della citata direttiva ha la duplice finalità di consentire al lavoratore il recupero delle energie-psicofisiche sia rispetto all’esecuzione dell’attività lavorativa che alla possibilità di beneficiare di periodi di distensione o ricreazione (sent. 25 giugno 2020, C-762/18 e C-37/19). Ne consegue che gli incentivi a rinunciare al periodo di riposo o volti a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi sono incompatibili con gli obiettivi del diritto alle ferie annuali retribuite, talché qualsivoglia azione o omissione del datore di lavoro, avente un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte del lavoratore, è altresì incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite. In tal senso, la previsione contrattuale che indirettamente comporta una retribuzione inferiore dovuta all’esercizio del diritto di godimento di un periodo di ferie annuali retribuite rischia di indurre il prestatore di lavoro a non prendere il predetto periodo di riposo, per via del conseguente svantaggio finanziario. Pertanto, il meccanismo di conteggio delle ore lavorate, come quello rinvenuto nel procedimento principale, sulla base del quale la fruizione delle ferie può comportare una riduzione della retribuzione del lavoratore – seppur in un periodo successivo -, in quanto quest’ultima viene ridotta dell’importo supplementare previsto per le ore straordinarie effettivamente prestate, è idoneo a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite durante il mese in cui ha effettuato ore straordinarie.

Il sopradescritto meccanismo, dunque, non è – in definitiva – compatibile con il diritto alle ferie annuali retribuite previsto dall’art. 7, par. 1, della direttiva 2003/88, sicché la Settima Sezione della Corte ha dichiarato che “l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, letto alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto ad un aumento per gli straordinari, le ore corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite prese dal lavoratore non sono prese in considerazione come ore di lavoro prestate”.

È, ora, il caso di guardare cosa succede nel nostro ordinamento.

La disciplina nazionale sull’orario di lavoro è regolamentata dal decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, ed è stata oggetto di apposito approfondimento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare 3 marzo 2005, n. 8, dove il concetto di orario di lavoro, ancorché definito come qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, resta – per parte della dottrina – ancora ancorato al concetto di lavoro effettivo, specie con riferimento alle regole sul lavoro straordinario.

L’orario di lavoro – pur nelle sue innumerevoli sfaccettature – è, ai sensi dell’art. 3, comma 1, decreto legislativo 8 aprile 2003, normalmente fissato in 40 ore settimanali, salvo apposite deroghe – inferiori – stabilite dalla contrattazione collettiva, restando ferma la possibilità di una flessibilizzazione dell’orario normale di lavoro a periodi non superiori all’anno (c.d. orario multiperiodale). Nella sopracitata nota ministeriale viene – poi – specificato che nel computo dell’orario normale di lavoro (…) non rientrano i periodi in cui il lavoratore non è a disposizione del datore ovvero nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni, sicché le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro. I più attenti potranno rilevare che la predetta indicazione amministrativa è posta in continuità con l’analisi del quadro di flessibilità oraria su periodi plurisettimanali o plurimensili, caso in cui vigono regole differenti da quelle ordinarie. Il corto circuito, però, avviene da una confusionaria interpretazione della definizione di lavoro straordinario – come definito dall’art. 1, comma 2, lett. c), D. Lgs. n. 66/2003 -, quale lavoro prestato oltre l’orario normale di lavoro così come definito all’articolo 3, che porta ragionevolmente a sostenere che ai fini del raggiungimento dei limiti dell’orario di lavoro settimanale si calcolano i periodi nei quali il lavoratore è al lavoro (nella definizione di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), mentre non si computano tutti i periodi non lavorati, seppur retribuiti (malattia, ferie, infortunio, gravidanza, permessi, festività, etc.). Ciò assunto – a titolo esemplificativo – l’erronea interpretazione della fattispecie porterebbe a non riconoscere le maggiorazioni per lavoro straordinario al dipendente che, chiamato a rendere la prestazione lavorativa da lunedì al venerdì per otto ore giornaliere, fruisca nella giornata di giovedì di una giornata di ferie, per poi svolgere tredici ore di lavoro nella giornata di venerdì, recuperando le ore in regime di orario normale di lavoro e, dunque, senza alcun diritto alla superiore retribuzione garantita per le ore “eccedenti”. E se, invece, stipulassimo un contratto di lavoro a tempo parziale su base annua per un numero di ore pari alla prestazione lavorativa richiesta su 11/12 delle mensilità disponibili? Avremmo l’effetto paradossale di non sottoscrivere più alcun contratto a tempo pieno, potendo con l’artifizio giuridico di far recuperare a retribuzione ordinaria le quattro settimane di non lavoro, volte al godimento del periodo annuale di ferie, completare il cerchio annuo della prestazione lavorativa.

Appare, dunque, logico e condivisibile che l’indicazione ministeriale, secondo cui la le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro, è da riferirsi esclusivamente alla fattispecie in cui si applichi un orario di lavoro c.d. multiperiodale, che preveda – per l’appunto – orari settimanali superiori o inferiori al normale orario di lavoro a condizione che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla minor durata prevista dalla contrattazione collettiva, nel limite dei dodici mesi mobili. Nel nostro esempio, allora, il lavoratore potrà serenamente fruire di un giorno di ferie il giovedì e vedrà retribuirsi, con le dovute maggiorazioni per lavoro straordinario, le cinque ore extra prestate nella giornata di venerdì. 


Bonus una tantum 200 euro, art. 31, Decreto Aiuti

di Michele Siliato e Tiziana Fontanelli

Circolare del 17 giugno 2022 per i clienti dello Studio

A seguito delle numerose richieste di chiarimenti pervenute allo scrivente Studio, intendiamo, con la presente circolare, dare una più completa ed esaustiva informazione sul c.d. Bonus 200 euro, previsto dal Decreto Aiuti, rilevando preliminarmente che – come noto – i decreti legge sono atti aventi forza di legge che vanno convertiti in legge entro i successivi 60 giorni.

Allo stato dell’arte, ai sensi dell’art. 31, decreto legge 17 maggio 2022, n. 50, la misura è destinata ai lavoratori dipendenti, pubblici e privati, che hanno fruito dell’esonero contributivo sulla quota a loro carico pari a 0,80 punti percentuali nel primo quadrimestre dell’anno 2022 (riportato nei cedolini paga mensili alla voce “Esonero 0,8% contr. c/dipe”).

Il medesimo articolo 31, al comma 1, subordina, dunque, l’erogazione del bonus in trattazione alle condizioni che il lavoratore dichiari:

Nel caso in cui il lavoratore sia titolare di più rapporti di lavoro a tempo parziale contestuali, dovrà, altresì, dichiarare di aver reso la suddetta dichiarazione esclusivamente al datore di lavoro ricevente.

Ai sensi dei successivi commi 2 e 3, del medesimo art. 31, l’indennità spetta una sola volta, anche per i lavoratori che siano titolari di più rapporti di lavoro ed è caratterizzata dagli elementi di non cedibilità, non sequestrabilità o pignorabilità.

Salvo modifiche che vorranno essere operate in sede di conversione, paiono esclusi dal beneficio i lavoratori assunti successivamente al 30 aprile 2022 e/o che non abbiano avuto, nel primo quadrimestre 2022, un rapporto di lavoro per il quale è stato beneficiato dell’esonero sopracitato previsto dall’art. 1, comma 121, legge 30 dicembre 2021, n. 234.

Si evidenzia, peraltro, che si attendono chiarimenti o modifiche, in sede di conversione della normativa in commento, per quanto concerne l’erogazione del bonus ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato, stagionali o intermittenti.

Il beneficio in trattazione dovrà essere corrisposto, ai lavoratori dipendenti in forza al 1° luglio 2022, dai datori di lavoro nel mese di competenza luglio 2022 (cedolini paga di luglio) e compensato attraverso la consueta denuncia contributiva trasmessa dallo Studio all’Istituto previdenziale.

Fermo restando che i prestatori di lavoro dipendente potranno, comunque, presentare la dichiarazione utile alla corresponsione del bonus previsto dal Decreto Aiuti, lo Studio fornirà, successivamente, alle imprese clienti la predetta dichiarazione che il lavoratore dovrà restituire debitamente sottoscritta.


Lo Studio resta a disposizione per ulteriori ed eventuali chiarimenti.

 

Cordiali saluti,

 

Messina, 17 giugno 2022            

Settore marittimo, riesame delle istanze per l'indennità Covid-19

di Studio Siliato - Fontanelli

Articolo pubblicato sulla Rivista eDotto

Ai sensi della legge 30 dicembre 2020, n. 178, articolo 1, commi da 315 a 319, è stata prevista la concessione del trattamento di sostegno al reddito in favore della categoria dei lavoratori marittimi.

Il beneficio è erogato ai soci lavoratori autonomi di cooperative della piccola pesca, degli armatori e dei proprietari armatori e dei pescatori autonomi, a condizione che:

·  abbiano sospeso o ridotto l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19;

·   abbiano subito una riduzione del reddito in conseguenza agli eventi riconducibili alla emergenza epidemiologica da Covid-19, pari almeno al 33% del primo semestre 2021 rispetto al reddito del primo semestre 2019).

La concessione del beneficio è prevista per il periodo compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 30 giugno 2021. L’indennità - pari a 40 euro netti al giorno - può essere riconosciuta fino ad un massimo di novanta giornate.

L’Inps, con la circolare 19 novembre 2021, n. 173, forniva le istruzioni amministrative per la presentazione delle domande di indennità Covid-19.

La verifica delle domande è avvenuta tramite una procedura centralizzata che controllava – in modo automatico – i requisiti relativi alle incompatibilità e incumulabilità previste dalla norma.

Il soggetto interessato può visionare gli esiti della domanda e le relative motivazioni sul sito istituzionale dell’INPS, al servizio “Indennità COVID-19 (Indennità per i lavoratori autonomi pesca)”, alla voce “Esiti”.

Con il messaggio 27 giugno 2022, n. 2576, l’Istituto Previdenziale fornisce le indicazioni in merito alla presentazione di eventuali riesami per le domande che sono state respinte a seguito del completamento della prima fase di gestione centralizzata delle istanze.

Gestione delle richieste di riesame delle domande respinte

Il riesame potrà essere proposto entro un termine (non perentorio) di venti giorni, a decorrere dalla data di pubblicazione del messaggio in trattazione o dalla data di avvenuta conoscenza della reiezione.

Per il tramite di un’apposita funzionalità, il soggetto interessato, alla sezione “Indennità COVID-19 (Indennità per i lavoratori autonomi pesca)” potrà indicare i relativi motivi di reiezione e trasmettere la documentazione utile al riesame.

Per le domande respinte, il cittadino visualizzerà il seguente messaggio: “NOTA. Se l’utente ritiene di aver selezionato su tale domanda la errata categoria di appartenenza potrà, in caso di eventuale reiezione, presentare da questo stesso applicativo una richiesta di riesame”.

L’istanza verrà considerata non procedibile (con conseguente richiesta di integrazione delle informazioni necessarie) qualora l’utente, in sede di riesame, non abbia motivato sufficientemente la categoria diversa di appartenenza o non abbia allegato nessun documento.

Il cittadino potrà, altresì, richiedere il riesame anche attraverso la casella di posta istituzionale denominata riesamebonus600.nomesede@inps.it, istituita presso ogni Struttura territoriale INPS.

Indirizzi amministrativi sui riesami

Per quanto riguarda la verifica della qualifica di “pescatore autonomo”, l’Istituto, con precedente messaggio, ha precisato che questa non risulta attualmente rilevabile attraverso la procedura centralizzata.

Pertanto, l’utente, in sede di riesame, dovrà trasmettere all’Inps apposita documentazione finalizzata ad attestare la natura “autonoma” del rapporto di lavoro.

Nei casi di mancata rilevazione del requisito, gli operatori delle Strutture Territoriali dovranno verificare il codice fiscale del lavoratore indicato sui flussi Uniemens.

Nei casi necessari, gli operatori dovranno richiedere all’utente, in sede di riesame, un’autodichiarazione in cui esporre in maniera chiara ed inequivocabile lo status di pescatore “autonomo” e la natura del reddito derivante dall’attività di pesca.

Il richiedente associato in cooperativa, dovrà trasmettere l’eventuale documentazione rilasciata dalla cooperativa che certifichi l’importo della contribuzione previdenziale sul proprio reddito. 


Cancellazione delle comunicazioni aziendali: il bilanciamento di interessi tra il diritto alla riservatezza ed il diritto di difesa

di Michele Siliato

Articolo pubblicato sulla Rivista Sintesi   - Centro Studi Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano

La cancellazione dei dati sul PC aziendale da parte del dipendente dimesso integra gli estremi della fattispecie delittuosa prevista dall’art. 635-bis, Codice Penale, anche laddove, per la ricostruzione dei fatti, sia necessario accedere ai mezzi di comunicazione personali del dipendente utilizzati per l’attività lavorativa. Naturalmente, ove venisse riscontrata la violazione degli obblighi di fedeltà e la diffusione a terzi di notizie aziendali riservate, sussistono gli estremi per la richiesta di risarcimento dei danni subiti.

L’assunto è stato affermato dai giudici della Corte di Cassazione nella sentenza 12 novembre 2021, n. 33809, su istanza del datore ed avverso la sentenza 27 marzo 2017, n. 138, della Corte d’Appello di Torino, in riforma alla valutazione del giudice di prime cure.

Nei fatti di causa, la Corte d’Appello di Torino, rigettava la domanda risarcitoria proposta dalla società datrice di lavoro per diverse voci patrimoniali (oltre 1,2 milioni di euro) e per danno all’immagine ed alla reputazione professionale nei confronti del dirigente addetto a mansioni di direttore commerciale, riformulando la sentenza di primo grado che, invece, condannava il lavoratore a corrispondere, a titolo risarcitorio, la somma di euro 370.000, oltre rivalutazioni ed interessi dalla data di maturazione del credito. Nel merito, la valutazione posta dalla Corte territoriale si basava sull’inutilizzabilità delle conversazioni illegittimamente acquisite dalla società datrice, una volta riconsegnato dal dipendente il computer aziendale in dotazione, sul suo account privato Skype, in violazione della segretezza della corrispondenza e pure della password personale di accesso del lavoratore, mai avendo la società ritenuto di fornirne una aziendale, nonostante l’impiego dell’applicativo Skype anche per lo svolgimento dell’attività lavorativa. In particolare, in assenza di attualità e diretta strumentalità all’esercizio o alla tutela di un diritto in sede giudiziaria ed in difetto del consenso dell’interessato, ex art. 24 del Codice della Privacy, le verifiche poste dalla società sul computer aziendale affidato al lavoratore non possono ritenersi legittime e, di conseguenza, l’utilizzabilità dei dati dallo stesso ricavati.

Il ricorrente deduceva, dunque, in sede di legittimità la violazione e falsa applicazione dell’art. 15, Cost., 616, Cod. Penale, e delle disposizioni del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, relativamente all’illegittima attività di recupero dei documenti, dati ed informazioni, dolosamente cancellati dal lavoratore e sussistenti sul dispositivo informatico aziendale, afferenti all’attività lavorativa ed alle comunicazioni presenti sull’account Skype privato del dipendente, ordinariamente utilizzato attraverso la rete internet aziendale e non integrante l’incursione del datore di lavoro in corrispondenze private “chiuse”, sicché la violazione della password di accesso a Skype, dovrà considerarsi al pari di quella di utilizzazione dell’eventuale casella di posta elettronica in dotazione. Il datore di lavoro contesta, altresì, che la Corte territoriale abbia omesso ogni valutazione di bilanciamento tra il diritto alla riservatezza della corrispondenza ed il diritto di difesa della società, anche a fronte del grave danneggiamento subito ai beni aziendali e concernente, specificatamente, la cancellazione di dati, messaggi, documenti, recapiti, ecc., talché il trattamento di recupero operato, seppur in assenza di specifico consenso, debba intendersi legittimo in ragione della necessità di tutelare i propri diritti in sede giudiziaria, così come previsto dal citato art. 24, comma 1, lett. f), decreto legislativo n. 196/2003.

Secondo gli Ermellini, che cassano la sentenza impugnata e rinviano il giudizio alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione, il giudicante ha omesso di valutare il fatto storico della riconsegna del dipendente dei dispositivi aziendali svuotati di tutti i dati, quale presupposto decisivo per la corretta definizione della controversia, talché il successivo recupero effettuato dal datore di lavoro, avvenuto tramite l’affidamento a maestranze specializzate, non esclude la fattispecie di cui all’art. 635-bis, Codice Penale. Parimenti, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza, purché nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dall’art. 9, lett. a) e d), l. 675/1996. Ne consegue che la legittimità della produzione dei dati acquisiti va valutata, anch’essa, in base al bilanciamento tra contenuto del dato utilizzato – e conseguente grado di riservatezza – e le esigenze di difesa.

Orbene, i giudici di Piazza Cavour rammentano che il diritto in difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo l’art. 24, lett. f), l. 196/2003 di prescindere dal consenso della parte interessata per il trattamento dei dati personali, quando esso sia necessario per la tutela dell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612).

La sentenza in commento, giacché riguardi il citato art. 24, lett. f) in materia di tutela dei dati personali, oggi abrogato ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. a), decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, appare in linea con le disposizioni europee vigenti e, in particolare, con il Regolamento UE n. 679/2016, a mente del quale il trattamento dei dati personali è consentito qualora necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giudiziali.  

La Corte Suprema, ravvisa, altresì, che l’attività di recupero dei dati, cancellati dal dipendente dimesso precedentemente alla riconsegna del dispositivo tecnologico, non contrasta con le previsioni di cui all’art. 4, comma 2, dello Statuto dei Lavoratori, atteso che i controlli difensivi eventualmente messi in atto dal datore di lavoro non richiedono l’osservanza delle garanzie previste dalla medesima norma laddove siano diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più se posti ex post. La condotta del lavoratore, peraltro, è idonea a ledere il dovere di fedeltà e di diligenza tale da giustificare un recesso datoriale per giusta causa (nel merito, il lavoratore con domanda riconvenzionale aveva richiesto il pagamento dell’indennità di preavviso).

Ciò assunto appare confermato il principio secondo cui il dipendente può essere oggetto di controlli difensivi, senza necessità delle garanzie di cui al sopracitato art. 4, necessari per la tutela del patrimonio aziendale.

Dopo la riformulazione operata dall’art. 23, comma 1, decreto legislativo n. 14 settembre 2015, n. 151, - che ha aggiunto alle motivazioni di adozione dei c.d. controlli a distanza oggetto di accordo con rappresentanze sindacali aziendali o unitarie ovvero all’autorizzazione amministrativa, la fattispecie della tutela del patrimonio aziendale – ci si è chiesti se fossero ancora ammissibili i c.d. controlli difensivi occulti (dapprima non disciplinati e pacificamente ammessi dalla giurisprudenza se diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore). Un tema da sempre oggetto di dibattito che deve trovare il giusto contemperamento tra le tutele riservate al lavoratore dipendente dallo Statuto dei Lavoratori e dalla disciplina in materia di tutela dei dati personali ed il legittimo interesse di preservare il patrimonio aziendale.

L’art. 4 dello Statuto è iscrivibile ad una complessa normativa diretta, da un lato, a contenere le manifestazioni del potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro, dall’altro, l’incidenza che le predette misure possano esercitare nella sfera personale dei lavoratori dipendenti e che possono sfociare in condotte lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore, tali da precludere ogni forma di discrezionalità o autonomia nello svolgimento della prestazione di lavoro. Da qui, probabilmente, nasce l’esigenza di affidare ad un soggetto terzo, sia esso la contrattazione aziendale che l’autorizzazione pubblica, il fattivo riscontro delle esigenze di tutela evidenziate dal datore di lavoro.

Nella disciplina previgente, venivano ritenuti legittimi i controlli difensivi occulti – sottratti all’art. 4, comma 2, legge 20 maggio 1970, n. 300 – aventi, sinteticamente, i seguenti presupposti:

a) iniziativa datoriale con specifiche finalità volte ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore;

b) che gli illeciti fossero lesivi del patrimonio o dell’immagine aziendale;

c) che fossero posti ex post rispetto all’attuazione del comportamento del lavoratore, così da scongiurare eventuali metodi di sorveglianza non conformi (tale ultimo presupposto è stato ritenuto non indispensabile a differenza dei due precedenti punti, ma solo confermativo della bontà del controllo difensivo attuato, potendo essere sufficiente anche il mero sospetto rispetto all’esecuzione degli illeciti).

Quanto sopra, condito dagli immancabili caratteri di correttezza, ragionevolezza, civiltà, cautela e adeguato bilanciamento degli interessi in gioco.

I controlli difensivi dovevano rispettare, dunque, la proporzionalità e la pertinenza dell’azione posta dal datore di lavoro. Quanto alla proporzionalità devono considerarsi invasivi i controlli difensivi che, sotto l’aspetto temporale, eccedono i limiti di adeguatezza e proporzionalità, e che, sotto il profilo sostanziale, sono indebitamente ricadenti sugli aspetti privati e personali estranei all’oggetto o al fine dell’indagine. Quanto alla pertinenza, il controllo non può essere svincolato dall’attività lavorativa e l’adozione di misure particolarmente invadenti devono costituire l’extrema ratio per il raggiungimento dell’obiettivo perseguito.

Le modifiche legislative apportate dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, e, successivamente, dal decreto legislativo 24 settembre 2016, n. 185, ribadiscono implicitamente, come affermato dalle recenti sentenze della Corte Suprema, la regola che il controllo a distanza dei lavoratori non è legittimo ove non sorretto dalle esigenze indicate dalla norma stessa, precludendo i c.d. controlli fini a sé stessi. Avendo, il legislatore, subordinato l’adozione di strumenti difensivi potenzialmente fonte di controllo anche alle ipotesi di “tutela del patrimonio aziendale”, unitamente alle precedenti casistiche relative alla sicurezza sul lavoro ed alle esigenze organizzative e produttive, ci si è chiesti, come sopra anticipato, se i controlli difensivi occulti trovino ancora esistenza nel nostro ordinamento.

La risoluzione della questione sollevata in dottrina è stata, in ultimo, oggetto della giurisprudenza di legittimità, nella sentenza 12 novembre 2021, n. 34092, secondo cui è stata avvertita l’esigenza di distinguere i controlli difensivi in senso lato, concernenti quelli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti nello svolgimento della loro prestazione che li pone a contatto con il patrimonio, necessariamente assoggettati alla disciplina del novellato art. 4, e controlli difensivi in senso stretto, diretti ad accertare condotte illecite e ascrivibili ai singoli dipendenti sulla base di fondati indizi. Questi ultimi rimangono, tutt’oggi, all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4.

Ciò assunto, rimangono fermi i principi precedentemente elaborati, sicché il sospetto di un’attività illecita non giustifica un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia e tutela del lavoratore subordinato, rimanendo l’adozione di sistemi non autorizzati l’estremo rimedio per la difesa da illeciti. Controlli che, a prescindere, non possono estendersi a dismisura, sia sotto un profilo temporale che sostanziale (ogni possibile tipologia di “dato”), specie se si ricorre a strumenti o dotazioni tecnologiche.  

La vigilanza sul lavoro (…) va mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continuativa e anelastica.

Dott. Michele Siliato - P. Iva 03355270830

Dott.ssa Tiziana Fontanelli - P. Iva 03363880836

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